“Il covid ha visitato tutti i posti e palazzi del mondo e non si è azzardato a entrare nel campo di Moria. Perché la morte è salvezza, ma noi ospiti di Moria siamo maledetti: nemmeno la morte ci vuole”. A scrivere queste parole in una lettera è Inaya, una giovane mamma che da sei mesi vive a Moria, il campo profughi dell’isola di Lesbo che ufficialmente dovrebbe ospitare poco meno di 3mila migranti e dove invece, da mesi, vivono ammassate circa 19mila persone. Uomini e donne a cui le autorità greche hanno imposto il lockdown fino al prossimo 31 agosto, anche se non ci sono ufficialmente casi positivi all’interno del campo. La misura è stata presa per abbassare al minimo i rischi di contagio nel centro di Mitilene, il capoluogo che, in queste giornate di fine agosto, rigurgita di turisti svagati provenienti da tutto il mondo che passeggiano con le spalle bruciate dal sole.

L’isolamento ha reso ancora più largo il fossato che separa gli abitanti di Moria dal senso di normalità. Ma su quel lembo di terra che esplode di tende e baracche di cartone, la vita continua a battere il suo ritmo. E negli stessi attimi in cui la movida di stranieri si addensa nei locali chic rivolti allo specchio di Egeo su cui Lesbo si distende, in quel campo, ogni settimana, donne richiedenti asilo al termine della gravidanza sopportano il dolore delle prime contrazioni pregando che venga chiamata in tempo un’ambulanza. Le più fortunate riescono a dare alla luce i figli all’ospedale di Mitilene (in solitudine, l’isolamento blocca i padri al campo). Ma non è detto che la buona sorte continui ad assisterle ad affare concluso, quando con le loro creature tra le braccia devono capire in che modo e con che soldi coprire gli oltre 15 chilometri che separano l’ospedale dal campo di Moria. A volte i loro compagni riescono ad aggirare l’isolamento e a ottenere dalla polizia il permesso di uscire da quella prigione a cielo aperto per andare loro incontro. Ma, anche in questo caso, si tratta di fortuna.

“Quando è toccato a noi siamo riusciti a tornare in pullman dall’ospedale. Mio marito ha supplicato le autorità di lasciarlo uscire da Moria, altrimenti sarei stata sola”, racconta Faiza, siriana, mentre culla Musad, poche ore di vita appena avvolte in un panno verdeacqua. Il momento della sua nascita non è stato più complicato dei mesi che Faiza ha trascorso in gravidanza. “Ci sono stati momenti in cui ero certa che avrei perso mio figlio. Vivere al campo significa fare a meno di ogni forma di igiene, un paio di volte ho avuto due pesanti infezioni che mi hanno fatto temere il peggio”. Accanto a lei, l’amica Nada annuisce con rabbia, mentre si massaggia il pancione all’ottavo mese. “Devo sperare che tutto prosegua liscio fino al parto. Qui se stai male e vuoi fare una visita, devi metterti in fila alle 6 del mattino e restarci fino alle 4 del pomeriggio, senza mangiare nulla. Nessuno viene a darti un biscotto, anche se sei incinta. O lotti per stare in fila dal dottore o lotti per stare in fila per il cibo. Devi scegliere qual è la necessità più incombente del giorno”.

Nella tenda di 2X3 metri in cui Faiza crescerà Musad per le prossime settimane e forse mesi, l’umidità forma una bolla di caldo insostenibile. Un piccolo ventilatore acceso nell’angolo della tenda sposta aria e polvere, sopra la testa di mamma e figlio un pugno di mosche danza in giri concentrici seguendo l’illusione della corrente. “Viviamo nella sporcizia. Se mi distraggo un solo secondo, ritrovo uno scarafaggio sulla faccia di mio figlio. Ma il vero pericolo è la notte, quando nel campo regna l’anarchia e basta una scusa perché cominci una lotta tra bande”.

Il racconto di Faiza scorre lento, interrotto dal pianto di Musad e da lunghi sorsi del tè bollente che il marito Ghaalib, come da tradizione, serve agli ospiti. Come migliaia di giovani siriani, Faiza e Ghaalib hanno trascorso gli anni di studio sotto le bombe e non conoscono una parola di inglese. A tradurre quello che dicono è Nawal Soufi, l’attivista indipendente italo-marocchina che da anni aiuta senza sosta i migranti in viaggio lungo la rotta balcanica. Libera da ogni legame con le grandi associazioni benefiche, Nawal lavora senza intermediari tra lei e le persone che soccorre. Del campo di Moria ha imparato a conoscere tutti gli equilibri. Proprio come gli abitanti del campo, sa intuire quando un semplice battibecco o una spallata data per sbaglio nel reticolo di vie potrebbe trasformarsi in un accoltellamento. O in uno stupro. “Di notte nessuno è al riparo, neanche chi cerca di rimanere in disparte nella sua tenda – racconta Nawal, che a marzo, quando il campanello d’allarme del coronavirus aveva cominciato a suonare in tutta Europa, ha deciso di rimanere a Lesbo -. Le donne hanno imparato che dopo un certo orario della sera andare in bagno può trasformarsi in una violenza sessuale. E purtroppo lo sanno anche i bambini. Conosco genitori costretti a veder palpeggiate le proprie figlie da uomini di etnie nemiche. In quel caso, devono scegliere se reagire e magari finire uccisi o se sopportare, sopportare e sopportare ancora. Ovviamente denunciare è impossibile. Lo sanno i carnefici e lo sanno bene anche le vittime”.

Attraversando in macchina la parte orientale di Lesbo con la radio accesa, è più probabile captare un giornale radio turco che uno greco. L’isola è talmente protesa verso la Turchia che le frequenze si confondono e i suoni di quei due Paesi perennemente in lite finiscono per intrecciarsi. È in virtù di questa vicinanza fisica che, quando nel 2015 la rotta balcanica è esplosa e migliaia di siriani hanno cercato riparo dalla guerra, Lesbo è stata una delle terre che ha gestito tra i più alti numeri di sbarchi. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2016 sono arrivati in Grecia poco meno di 177mila profughi (il 98% via mare). In quel primo anno di crisi gli abitanti di Mitilene mostrarono al mondo il loro volto più accogliente. La piazza centrale, con i suoi chioschi e le sue vetrine piene di souvenir, si riempì di tende per dare alloggio a chi arrivava dal mare in cerca di speranza. Gente locale e cooperanti lavoravano insieme per dare una mano dove era più urgente. Secondo uno schema già visto, però, col protrarsi dell’emergenza la città (che conta 20mila abitanti) ha abbandonato il suo spirito missionario. Dopo che la situazione si è incancrenita e gli episodi di violenza tra bande di migranti sono diventati sempre più frequenti, a Mitilene ha preso piede un sentimento di diffidenza, trasformatasi poi in aperta ostilità. Lo scorso marzo, molte Ong erano state costrette a interrompere le loro attività di supporto a causa della violenza che alcuni residenti di Lesbo, alimentati dall’estrema destra, avevano riversato su operatori umanitari e migranti, con aggressioni fisiche, incendi appiccati e macchine distrutte a seconda della targa. Anche se oggi fanno meno notizia, i disordini proseguono. Chi entra in visita al campo di Moria sa che, sulla provinciale per tornare in città, potrebbe incrociare automobili appostate sul ciglio della strada con uomini vestiti di nero pronti a minacciare chiunque abbia l’aria di essere lì ad aiutare i migranti. Ad agosto, mese in cui sono arrivati sull’isola circa 300 richiedenti asilo (dall’inizio dell’anno sono stati 10.489), davanti al Comune della città si è radunata una manifestazione anti-profughi in cui si era invitati ad andarsene se si indossava un outfit palesemente di sinistra.

Nonostante tutto, con le sue decine di nascite mensili Moria è un posto in cui la vita continua a battere il suo ritmo. Ma la morte sembra non voler essere da meno. E in quel campo abbandonato da tutti, i suicidi – riusciti o solo tentati -, sono diventati la normalità. Ci aveva provato anche Inaya, la mamma autrice della lettera: “Mio figlio ha cercato di suicidarsi e l’avete salvato, io ho cercato di suicidarmi e mi avete salvata. I miei figli ospitano pidocchi nei loro capelli e scabbia sulla loro pelle. Maledetta malattia, vieni e prendici. Umanità dacci un po’ di Covid per morire e lasciare per sempre questo posto”.

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