di Diego Battistessa

Il 21 maggio per decine di sigle associative e sindacali, movimenti sociali, etnie indigene e migliaia di persone in tutto il mondo, è la giornata internazionale #AntiChevron.

Chevron è oggi una delle multinazionali petrolifere più grandi del mondo, una società diversa da quella che ricordiamo all’epoca delle “Sette Sorelle” del petrolio. Dopo aver acquistato la Gulf Oil nel 1984 ed essersi fusa successivamente con Texaco, oggi Chevron Corporation è insieme ad ExxonMobil l’attore principale negli Stati Uniti d’America in materia di petrolio. Ma perché esiste una giornata internazionale Anti Chevron?

Gli eventi risalgono al periodo intercorso tra il 1964 e il 1990, quando Texaco (che come detto nel 2001 fu acquistata da Chevron) fu responsabile dell’estrazione petrolifera in Ecuador nella provincia di Sucumbios e Orellana. Durante questo lungo lasso di tempo, di quasi 30 anni, è stato comprovato che la società statunitense ha versato 71.000 milioni di litri di olio esausto e 64 milioni di litri di greggio in 1000 piccole fosse aperte di 3/4 metri di profondità in una zona coperta da oltre 2 milioni di ettari di Amazzonia ecuadoregna. Per dare una dimensione del disastro ecologico intervenuto, è possibile fare una comparazione con quanto accaduto nel Golfo del Messico tra il 20 aprile e il 19 settembre 2010, quando un’esplosione sulla Deepwater Horizon, proprietà della British Petroleum, ha provocato una catastrofe ecologica. In quell’incidente fuoriuscirono 780.000 m³ di greggio mentre nell’Amazzonia ecuadoriana i rifiuti tossici prodotta da Chevron-Texaco ammontarono a 68.140.000 m³, quindi 87 volte maggiore.

Nel 1993 (un anno dopo che Texaco abbandona l’Ecuador) la popolazione locale si organizza e crea il “Fronte di Difesa dell’Amazzonia” per chiedere che vengano pagati i danni ambientali e che siano risarcite le comunità e le persone che subiscono gli effetti della contaminazione. Inizia così un lungo e tortuoso processo che vede l’avvocato e difensore per i diritti umani Pablo Fajardo Mendoza perorare le istanze delle vittime ecuadoriane riunite dal 2012 sotto la sigla della UDAPT (Unione delle persone vittime delle attività di Chevron-Texaco) contro la multinazionale statunitense.

Nel 2013 la Corte Suprema di Giustizia dell’Ecuador ratifica le anteriori sentenze a favore delle vittime e accorda un risarcimento di 9,5 miliardi di dollari che Chevron dovrà pagare. La condanna però fino ad oggi non ha prodotto risultati e la Udapt (l’organizzazione formata dalle popolazioni indigene Siona, Siekopai, Kofanes, Kichwas, Shuar insieme ai coloni) continua la sua lotta per sensibilizzare la comunità internazionale e indurre Chevron Corporation a pagare quanto dovuto.

Il Caso Chevron-Texaco è anche conosciuto come “il Chernobyl amazzonico” e oggi più che mai, gli sforzi per la preservazione della foresta amazzonica lo rendono attuale. Il Sinodo sull’Amazzonia, fortemente voluto da Papa Francesco nell’autunno 2019, ha riacceso i riflettori anche in Italia sulle condizioni delle popolazioni indigene amazzoniche, sulla necessaria dovuta diligenza delle imprese in termini di protezione dell’ambiente e diritti umani (Principi Ruggie 2011) e sulla responsabilità degli stati di proteggere le comunità ancestrali fortemente legate al territorio.

Se da un lato le popolazioni indigene non sono sole nell’affrontare questa battaglia legale che dura da 27 anni, dall’altro è pur vero che non dispongono dei mezzi economici per sostenere tutte le spese del caso. Molte sono state le campagne di raccolta fondi lanciate per sostenere i rappresentanti della Udapt che nel frattempo hanno ricevuto, Pablo Fajardo in primis, diverse minacce di morte ed intimidazioni.

“La giustizia ci ha dato ragione, perché abbiamo la verità come nostra alleata. Continueremo la nostra lotta fino a quando il nostro desiderio, la riparazione della nostra casa, di Madre Natura, diventi una realtà, solo lì vedremo la vera giustizia. Quando nessun’altra vita umana, piante o animali muoiano a causa della contaminazione lasciata da Chevron” dice Humberto Piaguaje, presidente dell’UDAPT (Unión de Afectados y Afectadas por las operaciones de la petrolera Texaco).

Anche in questo caso, come spesso accade nella regione latinoamericana, siamo chiamati ad una vigilanza attiva per scacciare lo spettro dell’impunità che incombe sulle vite delle collettività più vulnerabili. Di coloro che i primi abitanti di ABYA YALA (il nome che le popolazioni indigene danno al continente Americano) e custodi delle Pacha Mama (Madre Terra).

* Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni. www.diegobattistessa.com

In foto: Rigoberta Menchu visita una zona colpita dalla contaminazione della Chevron-Texaco (EFE/Jose Jacome, 2015)

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