Dunque il coronavirus è andato via e io non sono infettivo. Non solo, l’anticorpo IgG è rimasto e si è consolidato e quindi (azzardo) posso aspirare alla patente di immune, se mai qualcuno la prenderà, nei limiti permessi da questa malattia troppo nuova e misteriosa.

Qui finiscono le notizie (buone) che riguardano me.

Poi ci sono un paio di notizie (cattive) tratte dalla mia esperienza ma che potrebbero riguardare tutti.

Primo: l’Italia ha perso due mesi a discutere dei test sierologici rapidi sugli anticorpi (come quello fatto da me) bollati in blocco come inaffidabili e inutili. Questo strumento, che poteva essere fondamentale nel tracciamento dell’infezione, è stato snobbato dal governo. Il Ministero, sulla scia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha sempre considerato inaffidabili i test rapidi del sangue con il pungidito.

Eppure ci sono studi internazionali (uno danese e uno svedese) che sostengono l’efficacia di alcuni (non tutti) i test rapidi a goccia.

I test sierologici vanno usati a distanza di giorni dall’infezione per verificare un’infezione iniziata almeno una settimana prima perché l’anticorpo insorge di solito a distanza di 9-10 giorni. Importanti studiosi italiani, come i professori Massimo Galli e Giancarlo Icardi, sostengono l’utilità per gli screening del kit rapido pungidito.

Eppure dopo più di due mesi non abbiamo realizzato nessuno studio multicentrico serio per capire tra le cento offerte del mercato, quali siano quelle valide e quelle non idonee. Gli scienziati che affiancano il governo hanno preferito giocare sul velluto senza sporcarsi le mani. Solo ora, dopo l’arrivo sul mercato delle multinazionali hanno fatto partire gli studi sierologici nazionali e regionali sulla popolazione. Diasorin, Abbott e Roche hanno ottenuto il via libera alla commercializzazione solo dalla seconda metà di aprile mentre altri test, sia rapidi con pungidito sia con prelievo venoso, esistono da febbraio.

L’effetto di questa inerzia è sotto gli occhi di tutti: il test nazionale non è ancora iniziato e avverrà su un campione di sole 150mila persone. La ripartenza avverrà al buio senza conoscere lo stato del contagio mentre poteva essere meno rischiosa se si fossero testati e poi usati i kit rapidi pungidito.

Secondo punto: i cittadini non sono uguali in tutta Italia. Chi vive a Roma può fare il test privatamente. Chi vive a Milano, finora no. Domani chissà. Dipende dalle scelte dei singoli assessori e dalle categorie ammesse allo screening regionale pubblico.

Solo per far capire meglio quel che è accaduto in Italia riprendo qui il racconto della mia esperienza.

Eravamo rimasti al 7 aprile. Quando, dopo averlo ordinato sul web il 24 marzo, ho fatto su me stesso un test sierologico pungidito comprato da solo sul web. La ‘stecchetta’ di plastica segnalava un debole risultato positivo all’anticorpo IgG, quello che insorge nella seconda fase dell’infezione (dopo l’Igm che segnala l’inizio dell’infezione) e annuncia una reazione immunitaria dell’organismo.

Nell’articolo pubblicato l’8 aprile raccontavo perché quel test rapido del costo di 5 euro più Iva si era dimostrato utile per mappare il contagio e ridurre l’espansione del virus, almeno nel mio caso.

Il tampone scatta una foto precisa ma instantanea e costosa, perché richiede un kit da almeno 30 euro, più i costi di prelievo e di analisi in laboratorio. Il costo reale di un tampone è dunque superiore ai 50 euro. Mentre il test sierologico al costo di 5 euro permette di seguire ‘il film’ del virus nel nostro corpo e nella popolazione. In quel periodo era in corso una campagna di discredito dei test rapidi che – prendendo spunto da alcuni test non funzionanti venduti dai cinesi a Spagna e Gran Bretagna – sosteneva che tutti i test in questione non erano buoni perché ‘non validati’ o ‘non certificati’.

Questa campagna, rilanciata a reti e giornali unificati nei mesi di marzo e aprile, tendeva ad accreditare invece i test fatti mediante il prelievo venoso, più seri dei kit rapidi. Con una variante ulteriore: fior di virologi si facevano intervistare per dire che i test rapidi erano inutili perché non distinguevano gli anticorpi neutralizzanti dagli altri. Solo alcuni test su sangue venoso erano capaci di dire chi aveva quel tipo di anticorpo e poteva aspirare alla famosa patente di immunità. Poi questa teoria è stata piano piano lasciata cadere.

Il 18 aprile, dopo 11 giorni dal primo test, ho rifatto il test. La linea delle mie IgG si è consolidata.

Nel mio caso almeno il kit test ha seguito l’evoluzione della mia malattia perfettamente. Nessun falso positivo. IgG coerente con l’evoluzione della malattia. Un centro di ricerca e analisi, il Caam di Latina, ha elaborato un software che dal colore della linea del test rapido risale a un valore approssimativo dell’IgG. Se il software di Caam non sbaglia, il mio IgG era circa 22 au/ml ed è passato a 79 Au/ml. Mentre la mia compagna era negativa ed è ancora negativa al test. Quindi, almeno nel mio caso, il test rapido da 5 euro ha funzionato benissimo.

Se gli italiani avessero avuto la possibilità di usare i kit a goccia (previa verifica di quali fossero i test attendibili) già due mesi fa, ai primi di marzo, sarebbe stato molto meglio per tutti. Come me avrebbero potuto scegliere di isolarsi limitando il contagio in famiglia e nella loro comunità. Questo racconta la mia esperienza.

Da qualche settimana i kit test sono stati ammessi, a pagamento e privatamente, solo in alcune regioni come il Lazio. Però il test sierologico non vale ai fini di legge per dimostrare che si è infetti. Né permette di accedere al tampone e questo è un altro problema. Nessuno si pone il problema del destino dei soggetti che risulteranno a migliaia positivi al test sierologico nelle regioni che li hanno liberalizzati.

Torno al mio caso per raccontare l’epilogo: dopo ripetute mail del mio medico di famiglia, la Asl Roma1 mi ha chiamato per fare il tampone. Probabilmente perché aumentano i tamponi disponibili e si sono ridotti i soggetti malati. Così mi sono messo in fila al Drive test del Santa Maria della Pietà a Roma e dopo una mezz’ora di attesa in fila (Roma è una città unica: qualche nostalgico dei giorni belli suonava nervosamente il clacson senza senso come se fosse in viale Marconi prima del coronavirus) ecco finalmente il mio turno. La dottoressa mi infila un tampone in entrambe le narici poi un altro tampone in gola, mi sorride da dietro la visiera trasparente tutta coperta da una tuta bianca spaziale e mi saluta. Dopo un giorno e mezzo arriva la risposta: negativo. Dopo un’esultanza che nemmeno al gol di Tardelli del’82, riguardo il moviolone dei giorni passati.

Sono stato quarantuno giorni chiuso in una stanza. Trattato prima da folle quando avevo solo un presentimento – dovuto a un soggetto che mi aveva tossito vicino per nove ore in volo – e praticamente zero sintomi. Poi (dopo il test sierologico) sono diventato una sorta di untore, legittimato dalla legge a uscire ma guardato come un virus ambulante dopo l’uscita del mio articolo. Solo il tampone mi ha permesso di uscire dagli arresti auto-imposti con la sicurezza di non avere il virus nel mio corpo. Ed è impressionante notare come tutti vedano il male nell’altro. Nessuno in sé stesso. Persone che magari hanno avuto il virus e non hanno preso le mie precauzioni, non conoscono la quarantena né i test, mi chiedono se sono infettivo.

Dopo il tampone, effettuato ormai una settimana fa, sono uscito qualche volta per buttare la spazzatura o comprare il giornale all’edicola e devo dire che ho visto un lampo di terrore negli occhi dei vicini. C’è chi ti chiama al telefono e – dopo essersi informato sulle tue condizioni – alla fine lascia cadere lì: “Ma sei ancora contagioso?”. Il test sierologico da questo punto di vista è un’arma a doppio taglio. Ti dice che eri malato, che il tuo corpo ha reagito, ma non ti dice che non sei più pericoloso per il prossimo.

Solo dopo il tampone posso finalmente rispondere: non sono infettivo. La Asl mi ha detto che non serve un secondo tampone nel mio caso perché io non sono mai stato positivo al tampone.

Ed è questa l’ultima lezione del mio caso: le Regioni che aprono al test sierologico non possono lavarsi le mani del post-test ma devono permettere il tampone a tutti i soggetti positivi. Chi – dopo il cambio delle circolari regionali e a sue spese – ha fatto il test del sangue deve essere messo nelle condizioni di sapere se ha ancora la carica virale. Non ha senso liberalizzare i test del sangue per creare migliaia di quarantenati trattati come untori incapaci di conoscere la loro possibile infettività.

Infine una piccola mozione a favore del popolo degli ‘aspiranti immuni’. So bene che non bisogna esagerare con l’entusiasmo. Anche se con gli amici in questi giorni mi paragono a Thor o Superman (cercando di suscitare un po’ di invidia dopo settimane di commiserazione), so bene che l’esistenza dell’anticorpo IgG non è garanzia di non ammalarsi più. Però anche qui guardo con sorpresa l’ennesima giravolta dei virologi. Il 7 aprile, quando ho fatto il mio test c’erano fior di virologi di fama che andavano in tv a parlare di patente di immunità. Ora che, a prezzo di una dura quarantena, dopo test e tampone pensavo di averla conquistata, sono tutti lì a dire che non c’è certezza, che non si sa quanto dura e se garantisce davvero da un nuovo contagio.

Però lasciatemelo dire, non sarà una patente ma meglio un foglio rosa di niente.

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