di Filippo Poletti *

“Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”. Lo diceva Adriano Olivetti, scomparso improvvisamente, 60 anni fa, per un malore che lo colse a bordo del treno partito da Milano e diretto a Losanna. Era sabato 27 febbraio 1960, Carnevale. Era la vigilia della quotazione in Borsa della Olivetti, la fabbrica delle macchine fondata all’inizio del Novecento dal padre Camillo a Ivrea. Vigilia anche dell’acquisizione dell’Underwood Typewriter Company, l’azienda statunitense, hanno ricordato Laura Curino e Gabriele Vacis nella pièce teatrale intitolata “Adriano Olivetti, il sogno possibile”.

A sessant’anni di distanza le riflessioni del capitano d’impresa piemontese suonano come un testamento: “Può l’industria darsi dei fini che non siano solo i profitti?”, chiedeva il manager a sé e al mondo. In queste parole è sintetizzata la sfida della sua azienda dal volto umano. Una pubblicità del 1957, firmata dal designer Giovanni Pintori, ci aiuta, visivamente, a comprendere la rivoluzione olivettiana: “La vostra macchina da scrivere portatile viene da Agliè”, diceva lo slogan “glocal”, antesignano dei recenti “Ichnusa anima sarda” e “Coca-Cola, più veneta di quanto immagini”.

Poco più sotto, accanto a due immagini della macchina da scrivere Lettera 22, si trova una veduta di Agliè, accompagnata da questo testo: “Agliè è un piccolo comune del Canavese, in provincia di Torino. Oggi c’è una fabbrica Olivetti dove lavorano operai di elevata qualificazione. Il piccolo comune canavese partecipa dell’economia e dello sviluppo della società contemporanea. Ora da quella fabbrica escono le portatili Lettera 22. Vanno in tutto il mondo, esempio della nostra industria meccanica di precisione”.

La biografia di Olivetti, si veda ad esempio la voce pubblicata su Wikipedia, segna come luogo della scomparsa la città svizzera di Aigle, localizzata sulla linea ferroviaria Milano-Losanna. Spostando la lettera “I” prima della vocale finale “E” e spostandosi di 215 chilometri dalla Svizzera verso l’Italia, si ottiene e si torna ad Agliè, sede della fabbrica piemontese dove, fino al 1965, fu prodotta la celebre macchina da scrivere che meritò il Compasso d’oro nel 1954 e che tuttora è esposta nella collezione permanente dedicata al design del Museum of Modern Art di New York.

Dietro alla macchina portatile, “che ad un massimo di prestazioni unisce il minimo di dimensioni, di peso e di prezzo”, progettata dall’architetto Marcello Nizzoli (sua la firma, ad esempio, del primo palazzo dell’Eni, battezzato “il castello di vetro”, a San Donato Milanese), c’è la storia di un riscatto economico e sociale: nel comune della provincia torinese aveva chiuso i battenti l’azienda tessile del gruppo De Angeli Frua, arrivato a dare lavoro a 1.500 persone. A ricostruire l’equilibrio socio-economico e il relativo benessere ci pensò Olivetti con la fabbrica della Lettera 22. Fu ad Agliè, infatti, che il manager italiano volle portare la produzione delle macchine da scrivere compatte, che solo l’arrivo del personal computer di Apple mandò in pensione.

Il lavoro cammina sulle gambe delle persone. Ce lo insegna Olivetti. Dietro ai servizi e ai prodotti di ogni impresa e istituzione, sia pubblica che privata, ci sono gli uomini e le donne. Pensiamo all’invenzione, tanto per restare in tema, della macchina da scrivere. Fu un’idea italiana, partorita dall’avvocato novarese e sindaco di Nibbiola Giuseppe Ravizza, che nella prima metà dell’Ottocento progettò il “cembalo scrivano”, permettendo anche ai non vedenti di scrivere.

Il 14 settembre 1855 ottenne dall’ufficio centrale di Torino il brevetto per l’apparecchio a “scrittura invisibile”, ben 13 anni prima di quello dello statunitense Christopher Latham Sholes per conto della E. Remington and Sons. Il resto, dalla Lettera 22 alla Divisumma 14 (calcolatrice elettromeccanica in grado di eseguire le quattro le operazioni aritmetiche e stampare il risultato), solo per citare due prodotti della Olivetti, è storia di successo.

La strada dell’umanesimo in azienda è tracciato. L’eredità di Adriano Olivetti è a disposizione di tutti. Serve per ribaltare il rapporto tra datore e dipendenti. Lo ha sintetizzato bene lo chef milanese Davide Oldani: “I ragazzi che lavorano con me non sono miei dipendenti: sono io che dipendo da loro”. Vale in tutti gli ambiti professionali, nessuno escluso, con tanti esempi positivi.

L’insegnamento di Olivetti risuona, direttamente o indirettamente, nell’operato di diversi imprenditori viventi. Vale, ad esempio, in quello di Dainese, l’azienda di Colceresa in Veneto, produttrice di equipaggiamento tecnico sportivo. Suo, dell’amministratore delegato Cristiano Silei, il motto di “force for good”. Si possono fare bene prodotti e servizi. E si deve farlo olivettianamente, mettendo sempre al centro le persone.

* Giornalista professionista, saggista, musicologo e influencer su LinkedIn, ero e sono convinto che al centro del lavoro ci sia la persona. Per questa ragione dal 2017 curo su LinkedIn la “Rassegna quotidiana del cambiamento ore 7”, postando contenuti che raccontino storie di professionisti a cui guardare con interesse. Vivo a Milano, dove mi occupo di comunicazione d’impresa interna ed esterna. Sono sposato, ho due figlie e un motto: «Nell’economia della conoscenza la condivisione è importante quanto il possesso». Pubblicato da Flaccovio nel 2020 il mio libro “Tempo di IoP, intranet of people” dedicato alla centralità degli uomini e delle donne all’interno delle aziende.
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