Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, pensatori, scienziati, navigatori, trasmigratori, ma anche di magistrati, economisti, allenatori di calcio, urbanisti, insegnanti (a seconda delle occasioni) oggi si scopre popolo di virologi ed epidemiologi. Complice l’approssimazione dell’informazione ufficiale e il protagonismo dell’agorà virtuale (dove pronunciarsi – qualsiasi cosa si dica – significa esistere) moltissime sono diagnosi, pareri, sentenze, indignazioni a cui siamo quotidianamente, volenti o nolenti, sottoposti.

Torniamo al tradizionale cuique suum, a ciascuno il suo. Non mi unirò alla funambolica lista di commenti (non richiesti) e mi limiterò, da insegnante, ad alcune osservazioni rispetto al tema della formazione, strettamente implicato nella questione Coronavirus. Tanto più da ieri, con il Dpcm che decreta la sospensione della didattica in tutti i servizi educativi, scuole e università sul territorio nazionale.

1. Nessuno può credere che il provvedimento di chiusura delle scuole possa rappresentare da sé solo un ostacolo definitivo alla propagazione del virus. Ma è pur vero che bloccare una popolazione di circa 8 milioni di individui – tra personale della scuola e studenti – significa snellire l’intasamento dei mezzi pubblici e diminuire le possibilità di contagio che la scuola stessa potrebbe favorire.

Nelle classi pollaio, che i tagli sulla scuola hanno prodotto, la vicinanza tra banco e banco, tra posto e posto è generalmente minima. Qualsiasi precauzione e vigilanza sono inutili. In questa situazione, bloccare la didattica significa anche che i bambini e i ragazzi non diventino inconsapevoli incubatori del virus: nonni e immunodepressi certamente non potranno che beneficiare di questo provvedimento.

2. Qualora il provvedimento dovesse rimanere limitato ai 10 giorni appena decretati, la sospensione della didattica non dovrebbe ragionevolmente rappresentare un problema, tanto più che è in gioco la salute della collettività e la tenuta del Ssn. Altro è dire un periodo più lungo. A questo proposito è stata pubblicata una nota del Ministero dell’Istruzione. La normativa prevede che l’organo competente per la didattica siano il Collegio docente e le sue articolazioni.

Essendo il Dpcm norma di secondo livello, subordinata alla legge, il richiamo al collegio è implicito, per forza di legge. Questo significa che nessun dirigente può prevedere accelerazioni unilaterali né imposizioni che non siano contemperabili in tale quadro.

Da questa mattina io, come credo la maggior parte dei docenti italiani, siamo stati subissati da mail che proponevano materiali per la didattica a distanza da parte delle case editrici (piatto ricco…). Penso però che i docenti italiani siano già attrezzati a sufficienza per concordare e condividere pratiche adeguate per mantenere un contatto significativo e una continuità che contemperi il diritto allo studio, anche a distanza, e il rispetto della legge.

3. La questione al momento più spinosa posta dalla chiusura delle scuole è certamente quella che riguarda le difficoltà cui le famiglie italiane si sono improvvisamente trovate a far fronte. In questo senso – e prima di ogni altra cosa – occorrono provvedimenti urgenti, che non possono che concretizzarsi in agevolazioni per i genitori lavoratori in termini di permessi retribuiti e sostegno economico per l’assistenza ai minori. E’ qui prima di tutto che si salda la prioritaria questione sanitaria con gli aspetti economici posti dalla chiusura, cercando anche in questo campo un equilibrio che l’allarmismo delle prime ore e la marcia indietro di qualche giorno dopo non sono riusciti a contemperare.

4. Infine due considerazioni: in questi anni la scuola – con i pochi fondi che le sono arrivati – ha investito prioritariamente sul proprio “ammodernamento”, troppo spesso coinciso con una entrata a gamba tesa sul “cosa” attraverso il “come”. L’emergenza di questi giorni ci rivela che le sempre nuove tecnologie sono uno strumento utile, utilissimo in questo momento, ma non sufficiente a sostituire la relazione, che sola può produrre sapere significativo. Uno strumento, appunto, da affinare per far fronte a situazioni inimmaginabili, come quella che stiamo vivendo. E non il fine e la mediazione irrinunciabile della nostra professione, come – con una tendenziale violazione della libertà di insegnamento – si è tentato di fare negli ultimi 15 anni.

E poi: il Covid-19 passerà, i sistemi di istruzione e sanitario nazionali (speriamo che) rimarranno. Il progetto di autonomia differenziata, che li devolverebbe insieme a tante altre importantissime materie alle Regioni, ha trovato in questa emergenza nazionale la prova concreta dell’iniquità e inefficacia di quel progetto.

E poi: cosa sarebbe accaduto se – anziché nelle sviluppatissime tre regioni del Nord – la zona rossa fosse stata (o, malauguratamente, sarà) in Basilicata e Calabria o in altre delle regioni i cui
sistemi sanitari stentano a sopravvivere? L’esigenza di una gestione centralizzata di questa emergenza significa rispetto dell’interesse generale della collettività nazionale. Potenziare (e non depauperare, come si è fatto costantemente negli ultimi 20 anni) questi presidi di democrazia e uguaglianza che configurano la possibilità di tutte/i di accedere a diritti universali significa prendersi cura di un Paese, della sua identità, della possibilità di accedere per ciascuno di noi, ovunque si sia nati, a quei diritti.

La sensazione è che stiamo passando uno di quei momenti trascorso il quale nulla sarà più come prima. I nodi sono venuti al pettine, attraverso un virus che – più o meno di un’influenza che sia, non sta a me dirlo – ha portato alla luce la nostra globalizzata fragilità. Solo una riflessione sugli errori fatti potrà evitare che il dopo abbia un volto peggiore del prima.

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