Quando la figuraccia era ormai già compiuta, ci ha pensato la scienza a riportare sulla terra gli avidi padroni del calcio, persi a litigare per difendere i loro interessi mentre il Paese affronta l’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Il Comitato tecnico scientifico, voluto dal premier Giuseppe Conte, ha chiarito che almeno per un mese lo sport si potrà disputare solamente a porte chiuse. Poco dopo è arrivata la dichiarazione del ministro Spadafora: “La Serie A può andare avanti ma a porte chiuse”. Una presa di posizione che ha almeno il merito di mettere la Lega Calcio e i presidenti delle 20 squadre di Serie A con le spalle al muro: o si decide di giocare, purtroppo ma necessariamente senza spettatori in tribuna, oppure si dice addio al campionato almeno fino alla prossima stagione. Non esiste una via di mezzo. Per ora però il messaggio non è stato recepito: sono saltate le due semifinali di ritorno della Coppa Italia e ancora non è stato trovato un accordo su come ridisegnare il calendario. Il calcio è all’ultima spiaggia: se non decide, fallisce.

Un’ovvietà che i vertici del pallone, a partire dal presidente della Lega Serie A Paolo Dal Pino, avrebbero dovuto comprendere almeno una settimana fa, come hanno fatto l’Uefa, i vertici del basket nazionale ed europeo o quelli della pallavolo, solo per citare alcuni esempi. Per la verità a questa soluzione era arrivata anche la Serie A quando giovedì scorso aveva ufficializzato le porte chiuse per 5 partite della 26esima giornata, tra cui anche il big match Juventus-Inter: nei giorni successivi la ridicola gestione dell’emergenza ricostruita dall’articolo di Lorenzo Vendemiale ha portato alla decisione di rinviare addirittura sei gare.

Una decisione dettata probabilmente da un immotivato ottimismo sulla durata dell’emergenza sanitaria che ha portato all’idea di poter disputare a breve lo scontro scudetto tra bianconeri e nerazzurri nella splendida cornice di pubblico dell’Allianz Stadium. Sarebbe bellissimo, ma purtroppo non è possibile. Le notizie che arrivano dalle autorità sanitarie parlano di un contagio che ancora non è rallentato e del rischio concreto che nei nostri ospedali si arrivi a una grave carenza di posti letto: è la vera emergenza che si sta cercando di evitare. Il governo ha deciso per questo la chiusura totale delle scuole e il sindaco di Milano Beppe Sala ha parlato di un ritorno alla normalità previsto in due mesi.

Solo il calcio non si è accorto di nulla, con ciascuna delle parti in causa (nessuno escluso) che ancora pensa ai propri possibili vantaggi in termini economici o sportivi. Mentre il turismo è in ginocchio, i locali sono vuoti e le aziende sono costrette a lasciare a casa i dipendenti, il pallone pensa di poter incredibilmente uscire immune dalla crisi. Quello che ancora non è stato compreso è che se non si rinuncia almeno per un po’ agli introiti derivanti dalla vendita dei biglietti, se non si mettono da parte i calcoli sulle convenienze a giocare o meno una determinata partita, si arriverà all’inevitabile conseguenza di perdere tutti e tutto. Il danno economico di uno stop alla Serie A sarebbe infinitamente superiore al “sacrificio” di 4-5 partite giocate a porte chiuse e non è più una prospettiva impossibile: basterebbe solamente un altro stop per compromettere definitivamente lo svolgimento del campionato.

Senza dimenticare un altro aspetto, non meno importante. In questi primi 10 giorni di emergenza sanitaria il calcio ha fallito nello svolgere la sua funzione più nobile, quella sociale. Con la gente chiusa in casa, costretta a non poter uscire nelle zone rosse e a “ridurre la socialità” nel resto del Paese, le partite in televisione avrebbero rappresentato un importante momento di svago e 90 minuti di ritorno alla normalità. Le due partite di Coppa Italia, trasmesse in chiaro sulla Rai, avrebbero tenuto sul divano milioni di appassionati, contribuendo anche in minima parte a evitare nuove occasioni di contagio. Ci sarebbe anche il tempo per proporre una deroga alla legge Melandri e trasmettere in chiaro alcune partite della Serie A. L’emergenza sanitaria non finirà a breve: se il calcio non se ne rende conto, in Italia non si vedrà più rotolare un pallone per mesi.

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