Waterboarding, CIA, terrorismo post 11 settembre 2001. Per chi è già sintonizzato su questa lunghezza d’onda storico politica The Report (anzi The Torture Report, con la parola “torture” cancellata dal titolo) è un film da non perdere. Un aggiornamento profondo e stratificato su come l’intelligence Usa autorizzò una larga quantità di nuove pratiche di tortura (tra queste alcune hanno portato perfino alla morte dei prigionieri) per estorcere informazioni di sicurezza nazionale, evitare nuove attacchi terroristici, e rintracciare possibili colpevoli delle stragi precedenti.

È sulle cosiddette “tecniche avanzate d’interrogatorio” che indaga il giovane idealista Dan Jones (Adam Driver) su richiesta della senatrice Feinstein (Annette Bening) a sua volta a capo di una commissione sestetto di tre deputati democratici e tre repubblicani. Per chi non lo ricordasse, siamo a metà del primo decennio del duemila, nell’evo della presidenza George W. Bush. Jones viene piazzato in un ufficio con altri due colleghi nelle viscere sotterranee di un palazzone con facciate dagli enormi cubi bianchi. Lo scavo è su file, dispacci, mail e memorandum che riguardano ogni singolo detenuto, presunto terrorista affiliato ad Al Qaeda, passato sotto le grinfie della CIA.

Il metodo innovativo se lo inventa il dottor Mitchell e la CIA lo acquista a scatola chiusa. Waterboarding prima di tutto. Quindi soffocamento del prigioniero tramite il versamento di acqua in gola spesso con il viso coperto da uno straccio. Jones gradualmente scopre che si è superato il confine etico e giuridico di diverse convenzioni internazionali, ma che c’è pure stato un morto. Solo che prima dell’approvazione del suo rapporto dalle alte cariche istituzionali (compresa una telefonata con un reticente entourage della Casa Bianca sotto Obama) passerà quasi un decennio.

Tra il corposo ed elettrizzante Spotlight e il vintage politico di The Post, The Report, diretto da Scott Z. Burns, è un thriller orchestrato su primi piani in uffici, segreterie, cunicoli, inframezzato dalla presenza invisibile di gole profonde e soprattutto (forse l’aspetto più forzato dell’insieme) da flashback sulle torture con tanto di pratiche sfoggiate nelle celle di detenzione. Ne esce un’opera storico-giornalistica dal ritmo forsennato tra buio e luce sulla verità, più concentrata sui dettagli dei rapporti analizzati da Jones e dei vari livelli di intersecazione tra agenzia e governo che sull’umanizzazione dei personaggi in scena. Quando una delle colleghe di Jones a metà film abbandona il pool di indagine, ad esempio, invece di aprirsi un privato ed intimo scorcio di vite parallele risucchiate nel vortice dell’etica professionale, si segue l’imperativo della battuta di Jones: “Bene ok, andiamo avanti”.

Driver, con quel suo faccione implume, pulitissimo e catatonico, è perfetto nel sintetizzare l’anelito progressista alla ricerca della verità e allo stesso tempo la meccanicità ossessiva del lavoro che svolge. Passerella finale sul defunto senatore McCain che discetta dell’etica statunitense. Titolo di coda: Obama nel 2015 firmò l’emendamento che vietò le tecniche riportate nel rapporto di Jones, ma che nessun funzionario della CIA che ne era responsabile finì incriminato. Produce Steven Soderbergh. In sala il 18, 19, 20 novembre.

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