La certificazione, rilasciata dal Quirinale a mezzo mimica facciale che nella crisi in corso tutti i contendenti rivelano spropositati livelli di inadeguatezza, potrebbe gratificare chi – come il sottoscritto – batte da anni il tasto (stucchevole?) della pluridecennale caduta verticale di qualità politica, etica e professionale.

Eppure, una conferma di cui non riesco a gioire. Anzi, mi procura un senso di smarrimento, la sensazione di precipitare in caduta libera. Dico solo che ora mi piacerebbe appurare quanti ancora restino credenti fideisti tra coloro che su questo blog, in questo come altri social, elevavano ininterrotti peana al tale o talaltro uomo del destino, lider maximo o unto del signore, cui avevano consacrato il cuore e sacrificato attitudini pensanti; si erano candidati a fungerne da pasdaran, sommergendo con gragnuole di insulti le critiche di qualche miscredente.

Certo, nonostante avvisaglie e riprove ininterrotte, l’apoteosi finale è stato il D-Day dell’addio di Giuseppe Conte, riflesso nei volti rubizzi delle tifoserie senatoriali sovreccitate, nel contrapposto smarrimento del Matteo Salvini desnudo e del Luigi Di Maio incapace di comprendere la ragione del trovarsi lì. In quel momento sembrava normale, obbligato, ricercare un’alternativa al giallo-verde nel varo di un governo rosso-giallo. Ma poi i telegiornali trasmettevano le immagini dei summit al Nazareno e lo spettacolo entrato nelle nostre case risultava altrettanto scoraggiante: i pallori malsani (anche sotto abbronzatura) di gente ingrigita nei corridoi e nelle sezioni periferiche del Pci, tipo Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, le mutrie da puffo maligno alla Matteo Orfini, i ghigni furbastri degli spregiudicati sgomitatori in arrampicata modello “sta’ sereno!”.

Con l’immediata conclusione che sostituendo un fattore il calcolo continua a non tornare. Nel complessivo giudizio pronunciato dal labiale silenzioso e amarissimo di Sergio Mattarella: inadeguati. Lui stesso in evidente imbarazzo nel non vedersi offrire la benché minima via d’uscita. Perché la soluzione del nostro rebus non esiste. Tutto a ramengo, compreso l’appello alle solite anime belle della sedicente società civile: gli evocati Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Roberto Scarpinato… pregevoli oratori da convegno, stimabili professionisti e amabili interlocutori, ben difficilmente in grado di gestire financo un banchetto di frutta e verdura.

Purtroppo con il materiale a disposizione siamo condannati a questa corsa al peggio, prigionieri dei calcoli miserevoli di chi ignora cosa significhi “interesse generale”: Salvini ubriaco di status symbol e sciali sfarzosi dopo anni di pane e cipolle, Di Maio ossessionato dal restare in sella per recitare la parte del notabile meridionale e Zingaretti pronto a fare l’opposizione di sua maestà alla Destra parafascista pur di liberarsi dei renziani; Matteo Renzi in fregola di assemblare un insignificante partititino blairiano con venti anni di ritardo.

Questo per dire che il ricambio reclamato non è giocare ai quattro cantoni con gli stessi giocatori: è un problema assai più complesso e di ardua soluzione. Una involuzione antropologica riscontrabile nella politica mondiale; anche se l’Italia ne è stata l’antesignana negli ultimi spasmi e contorsioni della prima Repubblica. Lo scadimento della Politica ormai asservita all’Economico, al tempo in cui il ragionamento veniva soppiantato dalla comunicazione, l’ideologia mercatista accreditava il cinismo delle pratiche bottegaie, i consulenti d’immagine venivano elevati a guide magistrali delle nuove caste al potere.

Forse, per voltare pagina dovremo passare attraverso il lavacro in fiamme di una stagione all’inferno. L’ inadeguatezza di cui si diceva ci prepara come inquietante punto d’arrivo un periodo dominato dal parafascismo salviniano, forte di consensi drogati, dai rigurgiti oscurantisti e disumani che porta con sé. Il mondo già ha intrapreso la china con il “comandante in capo irresponsabile” Donald Trump e i suoi antagonisti russi e cinesi.

SALVIMAIO

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