Non più rider comandati da un’app, pagati a cottimo e con poche tutele, ma una cooperativa di ciclo-fattorini che lavori attraverso una piattaforma digitale più equa e “bossless”, cioè senza capi. È questa l’idea che sta prendendo piede in Europa, con Belgio e Francia a fare da capofila, per risolvere il precariato estremo di chi consegna cibo a domicilio. L’obiettivo è quello di ribaltare i principi su cui si basa la gig economy attraverso il modello delle coop. Così quei “lavoretti” che oggi sono gestiti da un algoritmo nelle mani di una multinazionale, un domani potrebbero essere controllati direttamente dai lavoratori con una maggiore attenzione ai diritti sindacali. In Italia questa strada non è ancora stata tentata, ma il presidente di Doc Servizi Demetrio Chiappa è sicuro che potrebbe funzionare: “Basterebbe inquadrare i rider come intermittenti, adottando una legge che già c’è”, ha dichiarato a Ilfattoquotidiano.it. “In questo modo potrebbe essere rispettata la loro dignità di lavoratori”. Nel frattempo, dopo l’ennesimo primo maggio passato dai fattorini in bicicletta senza una maggiorazione sulla paga nonostante la festività, il ministro del Lavoro Di Maio ha (di nuovo) annunciato che sarà varata una norma ad hoc, questa volta all’interno della legge sul salario minimo.
Il caso belga e la “federazione” CoopCycle – I primi esperimenti per capovolgere il mondo del food delivery sono partiti nel 2016 con la belga Smart, una cooperativa che ha permesso a tremila rider (perlopiù studenti) di godere di tutele assicurative, salariali e previdenziali inquadrandoli di fatto come lavoratori dipendenti. In che modo? I fattorini sono diventati tutti soci della coop e hanno trattato un accordo con le due società del settore attive in Belgio in quel periodo, Deliveroo e Take Eat Easy (poi fallita). Il vantaggio di essere dipendenti anziché freelance era che, a fronte di una paga collettiva di circa 10 euro lordi l’ora, i rider potevano godere di diverse tutele altrimenti non previste per legge (assicurazione contro gli infortuni e responsabilità civile, contributo per l’eventuale riparazione della bicicletta personale, formazione sulla sicurezza). L’esperienza di Smart si è interrotta nel 2018, quando il governo centrale ha cambiato la legge sul lavoro intermittente e Deliveroo ha deciso di uscire dall’accordo con la coop. Questo modello, però, è stato imitato altrove e ha iniziato a diffondersi anche in altri Paesi europei. È il caso della Francia, dove durante le contestazioni per la riforma sul lavoro varata nel 2016 è nato il progetto CoopCycle. L’idea è semplice: mettere a disposizione di tutte le cooperative di rider europee un’app per smartphone analoga a quella dei giganti del food delivery. Con la differenza, però, che il “codice” appartiene ai lavoratori e sono loro stessi a stabilire regole, guadagni, tutele, senza strani sistemi di ranking o penalizzazioni per chi non riesce a pedalare alla stessa velocità dei colleghi più giovani. Ad oggi CoopCycle conta nove affiliati in Francia, cinque in Belgio, due in Germania e Regno Unito, uno in Spagna, tutti ispirati ai principi etici della social economy.
Il presidente di Doc Servizi al Fatto.it: “Riconoscere i rider come intermittenti” – “In Italia questo modello è già adottato da anni in tanti settori, ma per poterlo estendere ai rider bisognerebbe riconoscerli come lavoratori stagionali e inquadrarli con una legge già esistente, cioè quella del lavoro intermittente”, spiega a Ilfattoquotidiano.it il presidente di Doc Servizi, la piattaforma cooperativa di professionisti più grande d’Italia. Nata a Verona nel 1990 per supportare gli addetti del mondo dello spettacolo, la coop oggi lavora in Italia con oltre 8mila lavoratori tra artisti, creativi, operatori della comunicazione. Tutte figure a cui, nel corso degli anni, è stato riconosciuto questo status e che quindi hanno potuto diventare soci di una cooperativa. “Il lavoro intermittente permette a queste persone di lavorare come se fossero dipendenti, quindi con adeguate tutele, nonostante di fatto siano pagati a chiamata. L’elenco delle professioni risale a un regio decreto del 1923, ma è stato integrato nel corso degli anni dai vari governi”, aggiunge Chiappa. “Se si aggiungessero anche le nuove figure della gig economy, i rider potrebbero unirsi in una coop e sostituirsi ai big del food delivery riappropriandosi del proprio lavoro. O, in alternativa, avviare un dialogo e trovare un accordo su compensi e tutele”. Sullo sfondo, continua il presidente di Doc Servizi, è fondamentale che “i sindacati continuino a lottare per i loro diritti, come con la Carta di Bologna firmata l’anno scorso (e adottata finora da Mymenù/Sgnam e Domino’s Pizzandr). Anche la legge sul salario minimo di cui si sta discutendo in questo periodo sarebbe utile alla loro causa”. In ogni caso, conclude Chiappa, le coop possono funzionare anche per la gig economy e le esperienze all’estero lo stanno dimostrando. “In Francia la legge sul Cae (Coopérative d’activité et d’emploi) ha già normato questo scenario. Da noi negli ultimi anni purtroppo il modello delle coop è stato più volte infangato, ma se adottato in modo autentico è l’unico capace di redistribuire la ricchezza e creare valore”.
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