Nessuno sa quante siano veramente le società medico-scientifiche che operano in Italia. Non esiste un registro nazionale. Mai fatto un censimento. Si può soltanto avanzare una stima di almeno 500 realtà. Con tanti doppioni e triploni. Una Babele di sigle e di culture specialistiche, ciascuna impegnata a diffondere e promuovere le ultime novità sugli approcci alle malattie. Un mondo con cui normalmente il cittadino non entra in contatto ma che riguarda tutti da molto vicino, visto che le società scientifiche si occupano della nostra salute e hanno un peso determinante nella scelta dei farmaci, nei costi e nella qualità dell’assistenza sanitaria. Ci sono quelle con migliaia di iscritti e quelle con poche centinaia. Quelle che sul sito web fanno pubblicità a una o più aziende farmaceutiche inserendone il logo in homepage. Quelle che non indicano né sede, né mail, né telefono. Quelle che non hanno pubblicato lo statuto. La maggior parte non rende trasparente il bilancio e la lista dei soci. Non sempre si sa cosa fanno, quanti articoli scrivono, quanti corsi di formazione tengono e da chi prendono i soldi. Ma tutte giocano un ruolo fondamentale nei confronti dell’opinione pubblica. Un primo tentativo di pulizia lo ha fatto il ministero della Salute, che ha istituito un elenco (online dal 7 novembre scorso) di 293 società deputate alla stesura delle linee guida di pratica clinica cui i medici devono attenersi e che serviranno per stabilire la responsabilità medico-sanitaria in caso di contenzioso legale, come previsto dalla legge Gelli. Una selezione che partiva da 457 richieste di candidatura. Tutte le società scartate continueranno a sopravvivere e in qualche modo a far sentire la loro voce (attraverso congressi, corsi di formazione, documenti).

Una questione ancora irrisolta è la trasparenza. Nel decreto del ministero della Salute del 2 agosto 2017 uno dei requisiti minimi richiesti per entrare a far parte dell’elenco è la presenza nello statuto della previsione dell’obbligo di pubblicazione dei bilanci sul sito web dell’ente. “In sede di verifica del mantenimento dei requisiti – ci fanno sapere dagli uffici del ministero – controlleremo se effettivamente i bilanci sono pubblicati sul sito istituzionale dell’ente e quindi visibili anche al pubblico. In caso contrario l’ente potrebbe essere anche cancellato dall’elenco”.

Un altro capitolo riguarda il conflitto di interesse tra le società scientifiche e le industrie di farmaci e di apparecchiature mediche. Una condizione che, in base al decreto ministeriale, le società scientifiche dovranno regolare. “Le società non riescono a vivere con le quote d’iscrizione e hanno bisogno del supporto delle industrie – spiega Paolo Vercellini, professore di ginecologia all’università degli studi di Milano -. Ma i soldi delle industrie non risulteranno mai perché arrivano indirettamente. La principale fonte di finanziamento sono i congressi: le aziende pagano l’affitto di spazi espositivi, rimborsano i relatori e comprano pacchetti di partecipanti a cui offrono trasferta, vitto, alloggio e iscrizione al congresso, che può andare dai 100 ai 500 euro”. Quello che va evitato è che il legame con le aziende condizioni la pianificazione della ricerca, la divulgazione di dati, la formazione dei medici fino alle scelte di terapia.

“C’è infatti il rischio che ciò che viene diffuso non sia così imparziale – continua il professore -. Più le società sono piccole e frammentate, più sono dipendenti dalle aziende, perché trattando soltanto una o due patologie prescrivono farmaci di una, due ditte, che eserciteranno un’influenza quasi monopolistica”. Una ricerca condotta da Vercellini, uscita sul British medical journal nel 2016, ha dimostrato che su 47 società di ginecologia nessuna si era dotata di un regolamento sui rapporti con Big pharma e, salvo in un caso, non c’erano informazioni sulle forme di finanziamento (sponsor e donazioni). “Dobbiamo sapere quanti soldi ha ricevuto il relatore del panel dall’industria e se questa persona scriverà anche le linee guida”.

In un altro studio italiano, uscito sempre nel 2016 sul British medical journal, e realizzato da giovani medici (tra cui Alice Fabbri), è emerso che su 131 società mediche il 67,7 per cento aveva ricevuto sponsorizzazioni dall’industria per l’ultima conferenza. Che il conflitto di interessi in medicina sia pericoloso per la qualità delle cure e della scienza lo conferma anche un sondaggio su 321 oncologi eseguito dal Collegio dei primari oncologi (Cipomo) e pubblicato a luglio (sul British medical journal anche questo). Il 62% dei medici ha dichiarato pagamenti diretti da parte dell’industria farmaceutica negli ultimi tre anni, il 68% pensa che la maggioranza dei colleghi abbia un conflitto di interessi con l’industria e l’82% è convinta che la propria educazione oncologica sia supportata prevalentemente dall’industria.

Per garantire la massima trasparenza nei rapporti tra aziende e operatori sanitari contro la corruzione, il Movimento 5 stelle ha proposto un Sunshine act anche in Italia come negli Stati Uniti. Il disegno di legge, ancora in discussione in commissione Affari sociali della Camera, impone di rendere pubbliche tutte le erogazioni in denaro, beni e servizi effettuate dalle imprese a medici e farmacisti – con un valore unitario maggiore di 10 euro o complessivo annuo maggiore di 100  -, ad aziende sanitarie locali, ospedaliere, associazioni e società scientifiche, istituti di ricerca, ordini professionali, fondazioni e associazioni di pazienti, se superano i mille euro o i 10mila complessivi.

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