Cinema

Festival di Venezia 2018, David Cronenberg e lo spirito del nostro tempo tra strazio e filosofia

Cinque tappe, non necessariamente le più riuscite o apprezzate, ma le più adatte a rintracciare le fobie e i tormenti di un regista incantato dai demoni della malattia, della mutazione e del conflitto fra corpo e carne. Perché se le passioni identificano l'uomo, sono le ossessioni che ne agitano il genio

di Marco Colombo

IV – La violenza: A history of violence (2005)

Definita dallo stesso Cronenberg come una regia su commissione, imposta dagli oneri produttivi del lavoro precedente (Spider, 2003) e dalla necessità di sanare gli stipendi delle maestranze che vi erano state coinvolte, A history of violence occupa in realtà una posizione capitale nella filmografia del regista dell’Ontario. Lontano dalla visionarietà spiazzante dei titoli precedenti, infatti, la pellicola porta sul grande schermo le tavole disegnate da Vince Locke per l’omonima graphic novel scritta da John Wagner, occupandosi dunque di una storia di ordinaria brutalità. Ambientati nella provincia americana, i 96 minuti del lungometraggio seguono gli stravolgimenti di Tom Stall, premuroso padre di famiglia e proprietario di una tavola calda, la cui vera identità è tuttavia rivelata da un improvviso atto di eroismo che spalanca le porte su un passato impossibile da imbavagliare. Una mutazione mancata, un tentativo fallito di rimozione, una riflessione psicanalitica su significato e significante. Ma soprattutto una denuncia della violenza come atto fondativo della società americana, al pari del capolavoro griffittiano Nascita di una nazione (1915) e del Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese. Memorabili il piano sequenza d’apertura e l’ambiguo finale. Sceneggiatura di ferro e cast stellare, con un iconico Ed Harris, un ispiratissimo William Hurt e un Viggo Mortensen pronto a liberarsi dei panni fantasy de Il Signore degli Anelli per indossare quelli del feticcio cronenberghiano nei successivi La promessa dell’assassino (2007) e A Dangerous Method (2011).

V – La società: Cosmopolis (2012)

Una limousine bianca, un giovane miliardario con vezzi da re, una ricca schiera di cortigiani e un impero in fiamme. Ripassando le battute d’inchiostro spese dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, l’autore canadese confeziona un film di straordinaria complessità. Inesauribile e fatalista, Cosmopolis affida al suo primattore Eric Packer – un Robert Pattinson riabilitato del pallore vampiresco di Twilight e pronto a esibire quelle doti d’autore confermate nel recente Good Time (2017) dei fratelli Safdie – l’incarico di incarnare le meschinità del dio denaro nel lungo tragitto che lo conduce da un capo all’altro di una New York in tumulto. Spinto dal capriccioso prurito di una visita dal barbiere, Packer/Pattinson consuma il viaggio fra esami medici e colloqui più o meno graditi, assediato dal terrore della morte e da una fame compulsiva che si fa specchio della voracità di un sistema economico e sociale ormai al collasso. “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”scrisse Fredric Jameson, ed ecco quindi che, d’un tratto, la pellicola muta la propria pelle in una riflessione sui confini del cinema, sulla sua capacità di raccontare un contemporaneo in cui l’immaginazione sembra ormai essersi esaurita insieme alle modalità di rappresentazione. Nutrendo il proprio lavoro di una verbosità fluviale, monotòna e smaterializzata, con Cosmopolis Cronenberg segue le vie dell’analisi freudiana sino alle radici della sua ossessione più intima, il virus primario della sua perversione: il cinema.

Twitter@Ocram_Palomo

Festival di Venezia 2018, David Cronenberg e lo spirito del nostro tempo tra strazio e filosofia - 3/3
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