Cinema

Festival di Venezia 2018, David Cronenberg e lo spirito del nostro tempo tra strazio e filosofia

Cinque tappe, non necessariamente le più riuscite o apprezzate, ma le più adatte a rintracciare le fobie e i tormenti di un regista incantato dai demoni della malattia, della mutazione e del conflitto fra corpo e carne. Perché se le passioni identificano l'uomo, sono le ossessioni che ne agitano il genio

di Marco Colombo

II – La metamorfosi: La Mosca (1986)

Remake de L’esperimento del dottor K (1958) di Kurt Neumann, il film insegue i ronzii scientifici di Seth Brundle – geniale ricercatore impegnato in una serie di esperimenti attorno al teletrasporto – che, contaminando per errore il proprio dna con quello di una mosca, si ritrova vittima di un grottesco processo di trasformazione destinato a estinguersi nel più tragico degli epiloghi. Dosando con sapienza gli elementi body-horror della messa in scena con le sfumature della storia d’amore che la accompagna, Cronenberg realizza un melodramma tanto fragile quanto viscerale. Attrazione e repulsione si rincorrono così in un gioco dalla trama lineare, in cui il morbo della metamorfosi conquista poco a poco i pensieri e le membra del protagonista, catturando però non per il gusto voyeuristico del ripugnante bensì per l’empatia e la pietà che il cineasta riesce a instillare nello sguardo dello spettatore. Ingaggiato per il solo ruolo di regista del film, il nostro autore finì ben presto per riscrivere di suo pugno l’originaria sceneggiatura di Charles Edward Pogue – mediocre screenwriter del più che evitabile Psycho III (1986), secondo sequel del capolavoro hitchcockiano – infettandola con la sua poetica e con la sua raffinata ironia. Oscar per il Miglior trucco e blockbuster da 37 milioni di dollari d’incasso, La Mosca resta sinora l’unico fra i propri film in cui Cronenberg abbia deciso di recitare, vestendo i panni di un ginecologo in un piccolo cameo sotto forma di sogno della co-protagonista Geena Davis, all’epoca reale compagna della star Jeff Goldblum.

III – Il sesso: Crash (1996)

Ispirato all’omonimo romanzo di James Graham Ballard e vincitore del Premio della giuria al 49° Festival di Cannes, Crash canta a labbra chiuse l’eterna ballata di Eros e Thanatos, il perpetuo conflitto tra afflato vitale e desiderio di morte. Quando il regista televisivo James Ballard scampa a un terrificante incidente d’auto, infatti, l’incontro con la depravazione del carismatico Vaughan lo trascina nei gorghi peccaminosi di un’esistenza votata alla ricerca del piacere estremo e guidata dall’ossessione per i corpi maciullati delle vittime della strada. Il gelo clinico di una regia inappuntabile e i toni blu disegnati dalla luce di Peter Suschitzky – onnipresente direttore della fotografia cronenbergiano – fanno da sfondo a una sessualità che cannibalizza la narrazione, imprigionandone lo sviluppo in un’orgia di sangue, sperma e lamiere al limite della censura. Senza ammorbidire di un’oncia il crudo realismo degli incidenti, Cronenberg imbocca i suoi personaggi con dialoghi sporchi e ansimati, percorrendo con la telecamera le cicatrici che deturpano i loro lineamenti. Suture sgraziate, certo, ma al contempo metafora di un dolore che si traduce in unico superstite di quell’umano sentire ormai disperso. Un film urticante, affresco di una società anestetizzata dalla noia ed eccitata (ancora una volta) dalla fusione di corpo e macchina. Indescrivibile la sensualità di una Deborah Kara Unger – più tardi Christine in The Game (1997) di David Fincher – mai così bella e libertina.

Festival di Venezia 2018, David Cronenberg e lo spirito del nostro tempo tra strazio e filosofia - 2/3
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