Sono 18 i morti per overdose attribuiti all’eroina gialla spacciata a Mestre da un’organizzazione criminale nigeriana colpita da un’inchiesta della Procura di Venezia con 41 ordini di custodia cautelare. Nel numero di giugno 2018 il nostro mensile Fq MillenniuM, diretto da Peter Gomez aveva pubblicato un lungo reportage che raccontava lo stillicidio dei decessi, l’organizzazione criminale che ne era responsabile, ma anche le falle di una prevenzione sul campo con uomini e mezzi sempre più scarsi. Eccolo, in versione integrale. 

Di fronte a via Piave, che porta in centro. A sinistra via Trento, che porta nel nulla. A destra la parete di scheletri impalcati dei prossimi alberghi da migliaia di stanze di via Ca’ Marcello. Alle spalle Marghera, che i binari separano da Mestre. Per trovare la roba basta uscire dalla stazione e guardarsi intorno. I nigeriani sono lì. In via Piave già alle nove di mattina sono appostati agli angoli, silenti vigilano sullo spaccio nelle traverse. Nei giardinetti un gruppo di persone di diverse età e nazionalità in maglietta azzurra con logo sembrano operatori e mediatori sociali, sono invece lavoratori delle pulizie degli alloggi turistici a inizio turno. Alle cinque di pomeriggio un drappello di carabinieri è piazzato in via Trento all’incrocio del minimarket magrebino, nella quotidiana schermaglia con il gruppo a dimensione variabile che ci staziona davanti dall’alba a notte fonda, mentre un bambino con gli occhi bassi infila per mano alla mamma la porta di casa che sta lì in mezzo. Al baretto dei cinesi di fronte alla stazione potenziali acquirenti che hanno tirato dritto alla vista delle divise si fermano a comprare una bottiglietta d’acqua, temporeggiano, si guardano intorno, ripartono alla ricerca di una viuzza meno compromettente, mischiati alla popolazione. Acquistato quel che si deve, chi ha l’auto e viene da fuori per farsi si fermerà nella prima traversa sulla strada che riporta verso casa, gli altri cercheranno un posto là intorno.

“Piscia di gatto” dall’Afghanistan
In questi mesi hanno trovato gente in overdose per terra, negli ex stabilimenti ormai vuoti, in albergo, nei bagni della stazione, in camper. Di decessi ne hanno contati solo in città tredici in un anno, la più giovane una ragazza di 21 anni morta una mattina di settembre in una strada del centro, a decine sono stati salvati per un pelo. I nigeriani vendono roba buona. I giornali ne fanno “il mistero dell’eroina gialla”, i tossici più prosaicamente la chiamano “piscio di gatto”, l’Onu la descrive semplicemente come l’eroina che per potenza sta un gradino sotto l’eroina bianca, più sporca solo perché chi l’ha fabbricata, in Afghanistan, dove si produce il 90 per cento dell’eroina che gira in Europa e Asia,  non aveva tutti i precursori chimici necessari, ma aveva comunque un sacco d’oppio. Non arriva tramite i Balcani, o dalla Turchia, o direttamente dal Pakistan come la bianca, ma dalla rotta africana. Con le organizzazioni criminali e gli ovulatori, che trasportano la roba in pancia e di certo non viaggiano coi barconi della speranza. Molti vengono qui perché quella cercano, ma l’eroina marroncina o grigia che passa per mani albanesi e tunisine non è fuori mercato, ha solo canali differenti e meno immediatamente visibili. Se la roba è buona l’overdose è più facile.

Ma la verità che ogni operatore delle dipendenze ripete come un mantra è che tutta l’eroina ammazza, di qualsiasi colore sia, e che la mortalità più che alla cromia della sostanza è legata alla consistenza della domanda. Lo aveva capito molto bene Franco Beretta, medico generico «stanco di leggere sui giornali di questi ragazzi che muoiono e del silenzio di chi dovrebbe intervenire», come dichiarava nei primi anni Novanta. Nel suo ambulatorio di semplice medico di famiglia arrivò ad avere in carico 800 persone. Le trattava con il Temgesic, farmaco a base di buprenorfina, oggi somministrata dai SerD nel trattamento delle dipendenze da eroina come il metadone. Allora era prescrivibile solo come antidolorifico, certo non come terapia di mantenimento, ma questo medico laico arrivò a pubblicare sul locale Gazzettino annunci diretti ai tossici: «Possiamo aiutarvi, ventiquattrore su ventiquattro, venite da noi». Si alleò con gli stessi tossicodipendenti, scalfì il mercato, evitò la morte di molti, sfidò la legge, osteggiato da altri medici che preferivano vie meno avanguardistiche. Più della metà dei suoi assistiti aveva un lavoro, molti erano giovani e giovanissimi. Beretta ha lasciato questo mondo alla fine del 1998, in quell’anno gli interventi del 118 per overdose (fatali e non fatali) in terraferma furono 37, l’anno dopo la sua morte diventarono 73. Il suo primo nemico era Felice Maniero, che controllava capillarmente le piazze venete dove faceva smerciare eroina e cocaina che trattava direttamente con camorra, ‘ndrangheta e mafia turca. Dal 1995 Maniero è collaboratore di giustizia, quando la rete criminale della Mala del Brenta è stata smantellata lo spaccio ha cambiato modalità e sulla piazza è arrivata la manovalanza straniera, con albanesi e tunisini fra i primi a organizzarsi.

Il sindaco Brugnaro toglie i camper antidroga: “Creano degrado”
Anche dall’esperienza di Beretta sono nati i servizi veneziani per le dipendenze, innovativi per capacità di controllo del territorio e di accoglienza, di cui oggi restano la struttura e alcuni operatori ma che non godono più del sostegno sociale e politico che ne permise l’efficacia. Nel 1997 il sindaco Massimo Cacciari, con prosindaco per Mestre Gianfranco Bettin, istituì un servizio Dipendenze: comunale, unico in Italia. Allora si parlava di Laboratorio Venezia, politica partecipativa e attenta ai diritti, impegnata a traghettare verso il futuro un’area che sprofondava alla fine di un progresso industriale e sociale importante ma velenoso. Una manciata di anni prima del crollo per lo scandalo Mose, che ha portato alla definitiva sconfitta dei governi lagunari del centrosinistra e l’avvento del sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro. L’innovativo servizio, con personale assunto e mezzi e progettualità, si affiancava all’attività dell’azienda sanitaria ma coinvolgendo tutti, dal centro sociale Rivolta all’Ordine dei farmacisti alle forze di polizia. Con Meme Pandin si costruì il primo servizio in Italia di riduzione del danno, con due camper itineranti nelle zone di spaccio e consumo. Che un ventennio dopo sono diventati oggetto di baruffa politica, perché Brugnaro appena insediato, nel 2015, li ha fatti sparire.

A pochi passi da Rialto, nella magnifica sede del Comune di Venezia, l’assessore alle Politiche sociali Simone Venturini regge un foglio che gli è stato consegnato da Alberto Favaretto, seduto a fianco, che dirige il Servizio comunale per le dipendenze e ha preparato la breve relazione per l’incontro con la giornalista, che ne chiede copia senza ottenerla. Consigliere comunale a soli 22 anni per l’Udc oggi Venturini, classe 1987, siede in Consiglio eletto nella lista civica di centrodestra del sindaco. Respinge ogni accusa di sottovalutazione, afferma ricalcando gli slogan elettorali del primo cittadino: «I camper sono un problema per la gente, creano assembramenti e degrado», e rivendica: «Sono perciò stati sostituiti da un più innovativo servizio che viene svolto a piedi». Favaretto non può che confermare: «Cerchiamo di contattare più gente possibile».

Mille assistiti nel 2017. E il naloxone salva le vite
Dal 2007 Mestre ha anche un Drop-in, un servizio diurno a bassa soglia, si raggiunge passando sotto i binari, attraverso un sottopassaggio graffitato in via Trento, percorrendo via Giustizia, fitta di officine e concessionarie di automobili e deserta di persone. Anche in questa strada le ambulanze del 118 tirano su qualcuno ogni tanto, in mezzo ad aree incolte e ruderi, gli salvano la vita con il naloxone, il farmaco d’emergenza antagonista dell’eroina, che volendo si trova anche in farmacia senza ricetta a cinque euro. Bassa soglia significa accoglienza e assistenza soprattutto sanitaria per persone che per vari motivi non accedono ai SerD e che altrimenti finirebbero per diventare un problema di salute pubblica, oltre a rischiare la propria. Il Drop-in offre scambio siringhe e consulenza sanitaria e docce e un divano, a persone senza dimora o alcoliste o tossicodipendenti o tutto questo insieme. Nel 2017 ha accolto oltre mille persone, non ha mai avuto un dato così elevato. Segno che il servizio funziona meglio, dice l’assessore Venturini, da quando sono stati rottamati i camper. Ma è pure probabile che sia solo un segnale dell’aumento delle persone in grave difficoltà, anche abitativa e lavorativa. Al Drop-in in 12 mesi hanno consegnato più di 12 mila siringhe pulite, ne hanno ritirate oltre 8 mila usate. E hanno fornito 74 fiale di naloxone, organizzando anche corsi di primo soccorso per gli stessi tossicodipendenti, che hanno poi riferito di aver salvato più di qualcuno. Alle mille persone entrate nel Drop-in vanno aggiunte le 232 (di cui 160 tossicodipendenti) contattate dagli operatori appiedati nell’ambulatorio a cielo aperto.

Un dato simile a quello rilevato negli anni del camper, ma se si conteggiano tutti i contatti, e non le persone contattate, si vede che sono stati 662 nel 2016, primo anno senza mezzo e con operatori dimezzati, e quasi 2.500 nel 2015, quando il servizio era ancora a regime (dati dalla Relazione sull’attività dei Servizi dell’Azienda sanitaria veneziana, che riporta anche tutti gli altri numeri dei servizi comunali). Alla fine dell’incontro l’assessore strapperà il foglio in due e ne consegnerà un pezzo, quello appunto con i dati più recenti, cosa ci sia scritto sul resto non si può sapere. E con gli operatori, fuori da quella stanza affrescata, non si può assolutamente parlare. I servizi di riduzione del danno, di norma affidati alle aziende sanitarie, sono indispensabili e presenti da molti anni quasi ovunque in Italia, il problema è che se vengono lasciati a loro stessi riescono appena a tamponare i danni. Con operatori non più giovani, stanchi, sempre meno sostenuti e motivati, sfiniti.

Nei parchi 15mila stagnole per sniffare
Eppure quella di oggi non è un’emergenza spuntata all’improvviso. Quando il servizio di nettezza urbana Veritas, che cura anche la pulizia delle aree verdi, ha contato su richiesta del Comune le stagnole ritrovate nei parchi cittadini, usate per bruciare e inalare l’eroina, ha scoperto che erano passate dalle 5 mila del 2014 alle 15 mila del 2015.

A guardare la realtà, pochi anni dopo, si direbbe che una certa quota di chi inalava, metodo a rischio per dipendenza ma che non uccide, sia prevedibilmente passato alla siringa. «Si è perso di fatto il controllo del territorio, cancellando decine di servizi sociali, trasferiti in centro, e riducendo i vigili di quartiere delle municipalità, con tutta una serie di operazioni cosiddette di razionalizzazione ma in realtà di becero risparmio», così Gianfranco Bettin, oggi presidente della municipalità di Marghera, racconta anni di smantellamento. Dopo anni di strangolamento delle amministrazioni locali oggi le risorse ci sarebbero, soprattutto da queste parti, ma vengono destinate poi diversamente. «Le cose che prima si potevano sapere in tempo reale ora passano mesi prima che vengano anche solo registrate. Questo sta creando gravi problemi nelle periferie, che non sono affatto periferie, ma il centro della vita quotidiana delle persone. Anche i camper erano un pezzo di un lavoro più articolato, con gente che metteva in moto una rete di collaborazione ulteriore, informale ma efficace, il cui scopo era avere, e dare, notizie in tempo reale su quello che succedeva.

Qua l’amministrazione si è mossa dopo dieci morti. Fino a qualche anno fa ne sarebbe bastata una, per capire che qualcosa stava cambiando». C’era un tavolo di lavoro che riuniva tutti, ricorda Bettin, chiuso anche quello. Il sindaco Brugnaro reagisce pubblicando video che lo ritraggono mentre dirige uno sgombero o va in giro di notte per posti di blocco, e potenziando la polizia locale, compreso l’acquisto del cane Kuma, ormai una celebrità. Le indagini di polizia e carabinieri producono arresti e sequestri di eroina consistenti. Il problema è che al momento sembra una lotta senza fine, e lo spaccio continua con la sua scia di morti e feriti e il suo serbatoio di manovalanza, ben gestito da organizzazioni orizzontali fatte di piccoli traffici e omertà, ma anche superiori, non tutte straniere, non tutte visibili nelle strade. Perché i consumatori non mancano mai, anzi sembrano sempre di più. E sempre più giovani e insospettabili, anche se per un po’ si è pensato che il fenomeno eroina potesse essere in esaurimento ora ci si deve arrendere all’evidenza dell’esatto contrario.

Tra turismo e degrado
Oggi Mestre ha circa 170mila abitanti. Saldata a Venezia dal 1926, quando ne contava 20 mila, negli anni Settanta superava abbondantemente i 200 mila. Il salto avvenne dagli anni Cinquanta, con lo sviluppo di Porto Marghera e del petrolchimico e con l’esodo veneziano. È figlia di due decenni di cementificazione e sviluppo veloce e caotico, senza un vero piano regolatore, vittima infine negli anni più recenti della crisi industriale. Intere aree abbandonate, causa dismissioni e spopolamento. In una di queste, fra il centro di Marghera e il porto, lungo lo stradone di via Fratelli Bandiera, c’è il centro sociale Rivolta. Stanno lavorando per il festival rock dell’imminente fine settimana, ma trovano il tempo di fare due chiacchiere. Di qua un cancelletto li divide dal cortile delle casette della cooperativa sociale Caracol dove vivono alcuni richiedenti asilo africani, trasferiti dal famigerato centro accoglienza di Cona. Di là l’ex Cral Montedison, uno stabile enorme di proprietà privata in abbandono e rovina da anni, rifugio per sbandati e spaccio e consumo.

Non è l’unico, in uno stabile nella parallela via dell’Elettricità è stata ritrovata cadavere Genny Coccato, trentaduenne di Dolo, il primo decesso per overdose da eroina del 2017, a fine aprile, e di una lunga serie. Documentata in tempo reale dal sito GeOverdose, che traccia eventi fatali e non fatali in tempo reale seguendo le notizie di stampa e documentando così i “picchi” che mostrano il traffico interno di stupefacenti e la scia di morti e feriti che si lascia dietro. A Mestre come a Macerata, a Bologna, Torino, Milano, Roma, Napoli.

Diverso il destino dell’area al di là dei binari, di nuovo a Mestre, immediatamente adiacente la stazione, che si prepara a un altro tipo di invasione: quella dei turisti. In via Ca’ Marcello sono state tirate su nel giro di neanche due anni quattro strutture (con un investimento imponente di grandi marchi stranieri, tra cui tedeschi, austriaci e cinesi) grandi come cattedrali, alte fino a dieci piani, per migliaia di posti letto. E sono solo una parte delle concessioni edilizie, la previsione è che nel giro di un paio d’anni a Mestre gli alberghi raddoppino, per arrivare a 10 mila posti. Da sommare ai bed and breakfast, agli alloggi turistici, agli AirBnb. Una sotto-città i cui abitanti-turisti cambiano ogni giorno. Nel nuovo secolo è cominciato infatti un lungo e faticoso processo di riqualificazione urbana, ora preso in mano da Antonio Brugnaro, che vuole coprire la stazione con un’opera architettonica che sia anche infrastruttura di collegamento tra Mestre e Marghera, divise dai binari su cui transitano 500 treni al giorno.

È ambizioso il sindaco di Venezia e Mestre, uomo del fare, di natali operai a Marghera diventato poi imprenditore, fumantino dai modi spicci che parla in dialetto e pensa positivo. Ma il malessere sociale non si fa mettere sotto il tappeto, tantomeno quello rosso che porta alle reception degli hotel.

Da Fq MillenniuM, n. 13, giugno 2018

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