Con Reagan boom del debito e concentrazione della ricchezza – In principio fu un tovagliolino di carta. Leggenda vuole che Ronald Reagan negli anni Ottanta varò il suo storico taglio delle tasse (l’aliquota più alta passò dal 70 al 28%) fidandosi della teoria di un giovane docente di economia, Arthur Laffer. Che qualche anno prima, a cena con i repubblicani Donald Rumsfeld e Dick Cheney, aveva disegnato su un tovagliolino del ristorante Two continents una curva in base alla quale il gettito fiscale oltre un certo livello di imposizione anziché crescere tende a diminuire. Ergo, in teoria ridurre l’imposizione fa crescere gli introiti dello Stato. “Nella pratica, però, è accaduto il contrario”, ricorda Luca Fantacci, docente di storia economica in Bocconi. “Con spese sostanzialmente inalterate, la riduzione delle aliquote ha portato a un aumento del debito pubblico dal 32% del pil del secondo dopoguerra al 50%”. Questo nonostante la crescita del prodotto interno lordo degli Usa, a cui comunque contribuì in modo decisivo la rivoluzione informatica del personal computer di massa. Quanto alle conseguenze sul piano delle disuguaglianze, “la ricchezza detenuta dall’1% più ricco della popolazione, che era diminuita da oltre il 35% a poco più del 20% nel corso degli anni Settanta, ritornò sopra il 35% sotto la presidenza Reagan.

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Flat tax, ‘senza coperture pochi effetti su investimenti e consumi’. I precedenti dagli Usa di Reagan alla Russia di Putin

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