L’impossibilità per le dipendenti donne di prolungare il rapporto di lavoro così da totalizzare un maggior ammontare di contributi sui cui parametrare la pensione è una discriminazione. Lo ha deciso il giudice del lavoro del tribunale di Avezzano, Giulia Sorrentino, che ha condannato il ministero dell’istruzione a riassumere una docente di scuola primaria del comune abruzzese a risarcire per un importo pari a 24 mensilità una professoressa di Capistrello. Entrambe erano state autorizzate a prolungare il periodo di lavoro e poi costrette a restare a casa a causa del decreto legge 90/2014 del governo Renzi, che ha congelato i cosiddetti “trattenimenti in servizio“.

Una vittoria per le due donne, difese dagli avvocati Salvatore Braghini e Renzo Lancia. Le due insegnanti, 65enni nel luglio del 2014, al 31 dicembre 2011 avevano maturato i requisiti per beneficiare della pensione anticipata di vecchiaia all’epoca vigente (per le donne 61 e per gli uomini 65 anni di età con almeno quindici anni di contributi per entrambi se in parte maturati prima del 1993) ma non avevano i requisiti per la pensione di anzianità. Entrambe a quel punto avevano chiesto all’amministrazione di prolungare il servizio: proroga prima concessa e poi revocata con l’entrata in vigore del decreto legislativo 90 del giugno del 2014. Un’ingiustizia, secondo le due insegnanti, che si sono rivolte ai legali per chiedere di essere riassunte sostenendo la tesi della “natura discriminatoria del pensionamento forzoso”.

“Da parte del tribunale di Avezzano – spiega l’avvocato Braghini – in precedenza ci sono stati dei provvedimenti cautelari che ordinavano il reintegro delle persone che facevano ricorso. Questa è una sentenza vera e propria, la prima in Italia. Si sono accumulati gli effetti di due norme: la legge Fornero e il decreto 90/14 che per svecchiare la pubblica amministrazione ha abolito l’istituto del trattenimento in servizio”. Il problema secondo Braghini è proprio l’effetto discriminatorio riconosciuto anche dal giudice: “La norma ha creato una disparità di trattamento con i colleghi uomini che a parità di requisiti di età e di contributi hanno potuto fruire – cita la sentenza – del nuovo regime previdenziale precluso alle dipendenti di sesso femminile”.

Una discriminazione che emerge dall’elenco del personale dell’ambito territoriale della Provincia di L’Aquila da cui risulta che i docenti uomini sono stati collocati a riposo oltre i 65 anni, potendo così protrarre la loro permanenza in servizio fino alla maturazione del requisito necessario alla pensione di vecchiaia. “In altre parole – spiega il giudice – il trattamento di favore riservato alle dipendenti di sesso femminile di poter essere collocate a riposo con una minore età anagrafica si è tradotto in una loro penalizzazione sotto il profilo del futuro ammontare della pensione”.

Ora una delle due insegnanti è stata reintegrata in servizio mentre l’altra ha ottenuto un risarcimento di 24 mensilità. “L’amministrazione – spiega Braghini – ha preso una decisione sulla testa delle lavoratrici: un accesso facoltativo al diritto alla pensione si è tramutato illegittimamente in un obbligo. Il giudice ha finalmente dichiarato l’illegittimità del collocamento in pensione d’ufficio e condannato il ministero”.

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