Cinema

Il prigioniero coreano, bentornato Kim Ki-duk. Il regista Leone d’oro torna con un film politico e allo stesso tempo poetico

L’incredibile opera del regista Leone d'oro 2012 pone al centro una visione post-ideologica e concretamente libertaria rispetto alla perdurante e violenta divisione tra Corea del Nord e Corea del Sud

di Davide Turrini

Bentornato Kim Ki-duk. Il vincitore del Leone d’Oro 2012 (Pietà), torna nelle sale italiane a cinque anni da Moebius (2013), con un film estremamente e radicalmente politico come Il prigioniero coreano. Presentato oramai nel lontano settembre 2016 nella sezione collaterale “Cinema in Giardino” al Festival di Venezia l’incredibile opera di Kim pone al centro una visione post-ideologica e concretamente libertaria rispetto alla perdurante e violenta divisione tra Corea del Nord e Corea del Sud. Da un lato la dinastia dei dittatori comunisti Kim Jong-il e Kim Jong-un; dall’altro, oltre il 38esimo parallelo, l’apparentemente modernissima democrazia di Seul. Letteralmente a cavallo tra le due porzioni della stessa Corea sbuca il pescatore nordcoreano (interpretato dall’ottimo Ryoo Seung-bum) che, di prima mattina, in mezzo alla foschia, sale sulla sua barchetta per compiere il suo quotidiano lavoro. Solo che la rete s’impiglia nel motore e la barca in avaria, sospinta anche dalla corrente avversa, finisce nelle acque territoriali del Sud. Il pescatore verrà arrestato e sottoposto a duri interrogatori dai servizi segreti sudcoreani. Picchiato, offeso, costretto in ogni modo a confessare di essere una spia, il protagonista finirà anche per essere “tentato” in una forzata passeggiata tra luci, vetrine e merce del mondo democratico. E se l’uomo resiste e tutto sembra finire per il meglio, proprio in quella piccola e sgangherata casupola dove vive con le amate moglie e figlia, il ritorno al Nord sarà brutale e irragionevole tanto quanto l’involontaria “fuga” al Sud.

Il prigioniero coreano risulta così l’affresco magmatico e circoscritto principalmente in interni (sotterranei con muri scrostati e vecchi poster di propaganda al Nord, rifiniture minimal e tirate a lucido a Sud) di un uomo senza nazione, ma con un unico vero anelito patriottico verso una Corea unica ed unita che non sia più macchina istituzionalizzata e oppressiva a Nord come al Sud. Kim Ki-duk riesce a far riaffiorare carsicamente e magicamente, pur in un testo tutto politico, i tratti distintivi di quella sua originaria poetica che spazia dallo strazio truculento della carne (L’isola in primis) ad una sorta di innaturale e dirompente forza fisico-spirituale dei suoi protagonisti (ricordate Ferro 3?), riuscendo a proporre così un cinema denso, insinuante e tellurico, tanto da lasciare fino all’ultimo istante lo spettatore a trepidare per le sorti del povero pescatore dilaniato dall’eterno conflitto storico. “Mi sento più sudcoreano o più coreano? Mi sento, semplicemente, coreano”, ha spiegato il regista in un’intervista. “Il mondo, magari, lo scopre adesso, ma per noi coreani la divisione è una ferita che sanguina da 70 anni. (…) Con Il prigioniero coreano ho voluto mostrare un paradosso: guardate come sono simili Nord e Sud. “Là” c’è la dittatura, “qui” la violenza ideologica. E non si tollera che un povero pescatore del Nord, finito per caso fuor d’acqua, voglia ritornarsene a casa. (…) Non si può demonizzare un intero popolo. Il Nord non è solo la Dinastia dei Kim: la gente viene prima”. In sala grazie a Tucker Film dal 12 aprile 2018. 

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