“Ragazzi, ribellatevi a un destino scritto da altri! Studiate! La cultura è libertà”. Lo ripeteva come un’ossessione Nunzio Giuliano, vittima innocente della camorra, ammazzato dai killer, il 21 marzo 2004, sotto casa, in via Tasso a Napoli. Aveva 57 anni e una nuova vita davanti. La trama per lui non è stata la stessa che – purtroppo – coinvolge nelle “terre di guerra“, gli innocenti.  Gente comune, inerme che si ritrovano sulla traiettoria di una pallottola vagante mentre i camorristi si affrontano a pistolettate.

No, Nunzio Giuliano era colpevole di una scelta: essersi dissociato dalla camorra e parlarne con una straordinaria competenza. Il primo figlio della dynasty criminale dei Giuliano era l’obiettivo dell’agguato. Doveva essere eliminato. Era troppo pericoloso, carismatico. Le sue iniziative colpivano e scavavano nel cuore della camorra. La sua fuoriuscita dal clan familiare del Rione Forcella, la dissociazione convinta, la testimonianza lucida e dolorosa minacciavano da vicino e dà dentro lo stesso potere dei clan. Nunzio Giuliano era diventato un personaggio scomodo, uno che sapeva guardare il mostro negli occhi, usare lo stesso linguaggio, seguire la stessa logica e colpirlo con la forza delle parole. Sono trascorsi 14 anni da quell’orribile omicidio e non si conoscono né i mandanti e né gli esecutori. Indagini ferme e un groviglio di segreti inconfessabili che coinvolgono i mammasantissimi delle cosche storiche della metropoli all’ombra del Vesuvio. C’era un interesse dei vecchi capi dell’Alleanza di Secondigliano, una certello di clan sanguinari della periferia Nord di Napoli, di chiudere i conti definitivamente.

Ammazzare Nunzio Giuliano significava abbattere un simbolo, fermare un giusto e infliggere un colpo al cuore alla camorra del centro storico e in particolare esercitare una vendetta contro l’ex boss del rione Sanità e collaboratore di giustizia Giuseppe Misso. Un barbaro omicidio colpevolmente dimenticato da una città che pur vivendo una rinascita non si ferma a riflettere sulla sua tragica, drammatica recente storia. E’ il lutto che manca. L’elaborazione di comprendere perché una metropoli di pace, improvvisamente s’infiamma è piomba nella guerra. E in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Nunzio Giuliano, a sorpresa, i suoi familiari, amici hanno adottato una panchina al Real Bosco di Capodimonte.

Grazie al lavoro della nuova direzione del francese Sylvain Bellenger, tutti possono aderire all’iniziativa “Racconta la tua storia al Bosco di Capodimonte“, adotta una panchina, un albero, una fontanella. E’ così che il Bosco si è aperto alla città, alle storie, ai sentimenti, alla memoria e connesso emotivamente con un popolo, una comunità che ha bisogno di ritrovarsi. E così i familiari di Nunzio hanno scelto di adottare una panchina installata nei pressi di un campetto di calcio all’interno del Bosco. La targa d’ottone ricorda quelle parole pronunciate da Nunzio Giuliano nel corso degli incontri con i giovani a rischio. Un appello rivolto a chi la camorra la viveva molto da vicino e a chi faceva finta di non conoscerla: cibarsi di cultura, leggere, imparare ed essere curiosi.

E Nunzio raccontava della sua adolescenza fatta di prevaricazione, violenza e prepotenza. E quando nei vicoli del Rione Forcella vedeva gli studenti con zaini pesantissimi in spalla, li derideva. Poi a 30 anni per la prima si è ritrovato tra le mani un libro e si è accesa una scintilla. Una curiosità, una voglia fortissima di imparare, leggere per capire. “Ci sono zone di Napoli volutamente lasciate nel degrado per alimentare l’ignoranza e la deriva criminale. Nessuno nasce camorrista, basterebbe dare delle opportunità a tutti”. Nunzio Giuliano non è stato mai un camorrista, a dispetto – invece – dei suoi fratelli. La sua fedina penale non era immacolata: per lo più reati commessi quando era ragazzino ma tutti con pena espiata. Anzi la giustizia – per colpa di quel cognome troppo pesante – l’ha continuato a perseguitare con provvedimenti preventivi o punitivi rivelatisi poi illegittimi. Nunzio Giuliano è il primo in assoluto – in tempi dove l’anticamorra non era uno sport interessato e diffuso – che dal di dentro del mostro ripudia quel mondo, dissociandosi.

A fortificare quella decisione già presa e attuata con lo stupore e la contrarietà dei familiari e non solo è la morte per overdose del suo primo figlio, Pio Vittorio, appena 17 anni. È il 10 dicembre 1987. Comincia un lungo e duro viaggio di Nunzio alla ricerca di se stesso e della sua emancipazione da una società ingiusta che ti imprigiona in un preciso ruolo: il camorrista. “Sono oltre 20 anni che sto manifestando la mia opposizione interiore alla presenza dei clan e dei boss nella nostra città, nonostante che abbia dei familiari coinvolti in questa realtà, nonostante che l’insegnamento e la scuola che mi è stata data è stata quella della illegalità, della lotta per la sopravvivenza con la violenza.

Oggi vedo che questo accade ancora a migliaia di bambini napoletani, ma per loro è peggio. Quando ero bambino non c’era la droga, non c’erano gli omicidi, non c’era la camorra che conosciamo oggi, c’era solo la camorra politica. Dunque io sono nato a Forcella con tutti questi problemi, in una famiglia particolare, difficile, come difficile è stata la mia infanzia e questa è la forza che io nutro dentro, profondamente dentro di me, che mi fa ribellare alla camorra”. Una storia in discontinuità, guardata con diffidenza dall’anticamorra e troppo superficialmente e colpevolmente dimenticata. Nunzio Giuliano, era scomodo da vivo e continua ad essere scomodo da morto. Una targa, una panchina, un campo di calcetto.

E proprio nel Bosco di Capodimonte a pochi metri dall’istituto Caselli quel seme piantato potrà avere il tempo di crescere e costruire una nuova speranza.

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