“Per far sognare devi educare la curiosità”. Se ci fosse un aggettivo per connotare l’anima di Folco Quilici, morto sabato 24 febbraio all’età di 87 anni, sarebbe “instancabile”. Il documentarista ferrarese che visse il fascismo fin dentro casa – il papà Nello morì sull’aereo in cui perì sinistramente Italo Balbo e il piccolo Folco ricevette le condoglianze di Michelangelo Antonioni -, iniziò ininterrottamente a lavorare alla forma documentaria nel cinema fin da metà degli anni cinquanta. Proprio quando l’affermazione del concetto di cinéma-verité in Francia con Jean Rouch, e l’annessa pratica della caméra-stylo teorizzata da Astruc, divenne un nuovo dogma naturalistico e stilistico. Quilici, infatti, si gettò capofitto dentro agli oceani.

La sua prova, pardon, del fuoco fu proprio l’idea di lavorare alle riprese sottomarine di Sesto Continente nel 1954. “Un silenzio dell’altro mondo”, spiegava la voce narrante nei primi minuti di quel documentario girato nel Mar Rosso in cui si potevano vedere anche tante cose dell’altro mondo: relitti di navi affondate, flora e fauna marina, pesci di ogni genere e colore. Anche perché Sesto Continente fu il primo documentario subacqueo della storia del cinema girato a colori. Nel film c’era anche una caccia alla squalo che per tecnica e dettagli ricorda, trent’anni prima, le peripezie e i marchingegni de Lo Squalo di Spielberg.

Più che storia del cinema, era costruzione di un’epica naturalistica quella di Quilici. L’avventurosa vitalità di un occhio cinematografico che non si ferma mai davanti ai più incredibili viaggi sul pianeta terra. Già, perché dal ’54 in avanti, ed almeno fino ai primi anni ottanta, prima ovviamente solo per il cinema, poi con l’avvento della tv anche in esclusiva diretta per il piccolo schermo, Quilici iniziò ad esplorare tanti mari (pochissimi monti) sempre con quell’entusiasmo fanciullesco e quella spinta esplorativa degna di un marinaio. Ti-Koyo e il suo pescecane nel 1961 (con la sceneggiatura di Italo Calvino) e di Oceano (1971) entrambi documentari per il cinema, entrambi girati tra Polinesia ed Oceano Pacifico. Un occhio alle date, però. Perché negli anni sessanta questo “genere” tendente all’esotico e alla ripresa di animali e scenari naturali perlopiù sconosciuti (giova ricordarlo, niente internet ma anche rarissimi contatti concreti via tv con il resto del mondo) era da grande pubblico.

Tutto il filone “mockumentary” di Jacopetti e Prosperi (vedi: Mondo cane e Africa addio) fu da primi posti al box office senza che oggi ne sia rimasta traccia alcuna. Quilici, comunque, sembrò privilegiare fin da subito un approccio iperpresente dentro l’ambiente esplorato. Nell’acqua degli oceani fu il Jacques Cousteau italiano (a dire il vero Sesto continente arrivò due anni prima di The silent world dell’esploratore francese). E se Cousteau (criticato da Quilici per il suo egocentrismo) si dovette poi avventurare anche in un oceano di critiche (vedi l’imponente caccia alla squali del documentario del 1956), Quilici evitò provocazioni e spunti estremi, rimanendo un arrembante ma mai esacerbato scotennatore del reale. Cousteau produceva i suoi film con i mezzi illimitati messi a disposizione dalla marina francese; Quilici si arrangiava con mezzi di fortuna e spesso finiva anche per raccogliere gli aiuti di grandi produttori (si veda Goffredo Lombardo della Titanus per Ti-Kyoto…).

In questo lo spirito divulgativo di molti lavori anni settanta per la tv gli venne in aiuto e lo portò ad una distanza contemplativa molto più rispettosa della natura osservata. Tanto che la cinecamera di Quilici finì addirittura in cielo, sugli elicotteri a riprendere L’Italia vista dal cielo, un monumentale affresco delle bellezze italiane a diverse centinaia di metri dal suolo. Il programma Geo&Geo, oggi diventato contenitore anche di ricette culinarie, nacque grazie a Quilici nel 1980 e divenne l’emblema di una rappresentazione di mondi, natura e animali ancora soggetti inesplorati ma impetuosamente vivi. Fateci comunque caso: nei manuali di storia del cinema Quilici non appare praticamente mai. Anche se si sfogliano blasonate pubblicazioni sul genere documentario, il regista ferrarese, che si immerse nel mare per fare alcune foto quando era adolescente e praticamente ne riemerse da 70enne, non trova spazio. Altro che il “re del documentario”.

L’ultimo colpo di coda firmato da Quilici nel 2015 fu, tra l’altro, un film apprezzato da associazioni vicine al mondo degli animali. Animali nella grande guerra, distribuito dall’Istituto Luce. Muli, cavalli, cani, piccioni viaggiatori (che a dire il vero se ne vedono pochini e soprattutto in foto), fu un ultimo anelito di quella sorpresa, di quella meraviglia dell’ignoto non raccontato e non raccontabile, che Quilici provò ulteriormente a filmare. Quando non molti anni fa venne intervistato dal quotidiano Repubblica, spiegò cosa avesse significato il suo pioneristico sguardo sulla natura e sugli animali. Ricordo corrotto irrimediabilmente dalla “decadenza” attuale della forma documentaria, ibridata con le inchieste giornalistiche, infilzata dall’obbligo dello scandalo o della testimonianza storico-politica, non più traccia improvvisamente visibile di mondi invisibili.  “Mi sono immerso in un mare infestato di squali (…) esclusivamente per dare un’emozione a chi quelle cose le ha sempre sognate senza averle mai viste. Parlo degli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi ci interessa meno il meraviglioso, l’inedito, l’irraggiungibile. Pretendiamo però di salvare il pianeta. Comodamente seduti in poltrona”.

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