Combattenti di terra, di mare e del cielo. L’appello non è di Mussolini ma di Christopher Nolan per il suo ultimo film, Dunkirk. La celebre ritirata dei soldati inglesi tra maggio e giugno del 1940, quasi 400mila anime da riportare “a casa”, mentre i nazisti li stringono in un cul de sac di pochi chilometri e li bombardano in testa, è diventato un film definitivo, inappuntabile, stellare. Un film di fuga più che di guerra, un thriller claustrofobico in classici cunicoli e spazi ristretti più che un’epica strappalacrime in divisa. La narrazione è apparentemente suddivisa in capitoli spersonalizzanti (il molo, il mare, il cielo) in modo da privare lo spettatore di appigli emozionali sul classico pivot identitario dell’eroe qualunque da salvare.

Ma è solo una traccia flebile, un abbozzo di percorso visivo che lascia immediatamente spazio e tempo ad uno svilupparsi del racconto frenetico, in medias res, senza spiegazioni storiche, che vuole un necessario rimescolamento di anime che provano a scappare con ogni mezzo, e mantenendo anche una certa dignità, lontano dal nemico tedesco. In fondo, proprio una ritirata militare così emblematica, e così umanamente totalizzante, può diventare cemento armato tra classi socioeconomiche, ranghi e corpi dell’esercito. E ancora: l’aiuto cruciale per salvare i soldati inglesi da parte delle imbarcazioni private, dai traghetti con centinaia di posti alle barchette da cinque passeggeri, condensa ulteriormente questa amalgama nazionale che sfocia in un patriottismo da cinema di guerra anni Cinquanta più che da qualsiasi rivisitazione storica post anni Sessanta.

Un quotidiano inglese ha sottolineato quel “lasciarli scappare anonimamente” riferito ai soldati di Nolan, semplici fanti, caporali, colonnelli e perfino comandanti, ovvero il nucleo concettuale di una scelta stilistica caratterizzante che mette insieme discorso teorico/formale con quello contenutistico. Già, perché non dare un centro gravitazionale, non dare nomi propri (il film per almeno venti minuti è praticamente muto se non fosse per i rumori in campo) ma frammentare i soggetti in scena (a proposito: dei nazisti si vedono solo i proiettili, le bombe e gli Stuka) e poi – senza spoilerare troppo – far combaciare in pochi minuti le operazioni di una settimana sul “molo”, quelle in “acqua” di poco più di un giorno, quelle in “aria” di poco più di un’ora, è una magia spettacolare ed ammaliante, un numero da prestigiatore del cinema convincente e vincente, come se la forma supportasse il contenuto e viceversa.

Ad un certo punto, quando per i soldati oltre il rischio dell’essere uccisi dagli aerei, mentre aspettano di salire su una nave, comincia l’agonia dell’annegamento, o addirittura la possibilità di morire ustionati mentre sono in acqua intrisi di benzina, comprendiamo come Dunkirk sia una lunga e sofferta operazione di salvataggio di un’intera nazione, di una compatta idea di bene contro il male, non di un eroe di guerra, o dell’individualismo, uno per tutti, di un soldato Ryan qualsiasi salvato dal maledetto proiettile del cecchino. Nolan non tradisce mai il suo cinema cerebrale – lo schema è praticamente tutto, l’estetica fine a sé stessa è niente – e percettivo, arricchendo Dunkirk di una gamma cromatica scurita e ingrigita (Hoyte van Hoytema, con lui per un’altra avventura visiva come Interstellar) mai sbilanciata sul didascalismo del raggio di sole di fronte all’avvenuta salvezza, fuso all’iperpresente bordone sonoro (Hans Zimmer) che compatta in un unico suono sia violini che ottoni con raffiche di mitra, ticchettii di sveglie, sciabordii, sirene, esplosioni, in un interessante esperimento rumoristico che mai lascia in pace l’ascolto alla stregua della sperimentazione più demodé. Aspetti tecnico-artistici che tendono a sfiorare il sublime se vi capiterà di vedere il film in una copia 70mm.

Infine l’apporto attoriale (non ci sono donne, e a breve questo elemento un po’ nerd, misogino e robotico, spesso presente nel cinema di Nolan, diventerà un possibile handicap) è stipato all’interno di ruoli predefiniti che non necessitano di mimetizzazioni alla Actor’s Studio: faccia implume per Fionn Whitehead (definiamolo pure il protagonista); il solito folle e vile Cillian Murphy; l’austero Branagh; il compunto signor qualunque di Mark Rylance; e il salvatore estremo ed eroico dello spicchio di ritirata inglese inquadrata da Nolan, quel Tom Hardy pilota d’aereo che vi stupirà ancora una volta, dopo Il cavaliere oscuro, Locke e Mad Max: Fury Road, assolutamente a suo agio in un mutismo reiterato da brividi tutto gesti e sguardo.

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