Oggi in classe, aprendo il quotidiano come ogni giorno, con i miei ragazzi di quinta non avrò alcun timore di parlare della scelta di Dj Fabo. Lo so, non sarà facile. Qualcuno dopo aver orecchiato o ascoltato qualche tg o sentito le discussioni a tavola di mamma e papà, si schiererà contro o a favore della scelta di Fabiano Antoniani. Qualcun altro vorrà capire qualcosa in più, porrà domande alle quali non sarà semplice dare una risposta.

Ma io avrò l’occasione di parlare di un tema di cui nelle scuole italiane non si parla mai: la morte. Il sesso e la morte restano un tabù nelle nostre aule. Il risultato, sotto gli occhi di tutti in queste ore, è che manca una cultura della morte. Già di per sé quell’ultimo atto della nostra vita ci rende tutti analfabeti, incapaci di esprimere una parola, privi di un dizionario per comprendere ciò che in realtà conosciamo da sempre. Eppure la retorica della professoressa dalla penna rossa preferisce nascondersi dietro un “meglio non mostrare a dei bambini questo volto, questo lato della medaglia”. E quando ti capita un alunno di quarta “elementare” che vede la mamma malata di tumore morire dopo otto anni di calvario che fai? Ti nascondi? Non ne parli? Passi a matematica?

La più bella lezione che ho svolto l’ho fatta andando con una mia quinta al funerale di un giovane africano del paese morto in un incidente d’auto. Quel giorno in classe arrivarono tutti con l’aria triste. Qualcuno provava a celare le lacrime. A quel punto proposi con libertà ai miei ragazzi di esserci anche noi a dare l’addio a quell’amico più grande che se n’era andato. Uno dei bambini scelse di non venire e apprezzai la sua decisione. Con gli altri andammo alla cerimonia funebre perché la scuola è comunità e perché con la morte dobbiamo fare i i conti, dobbiamo imparare a convivere. Non possiamo trovarci impreparati.

Quest’estate due miei ex alunni, oggi alle medie e alle superiori, hanno dovuto avere a che fare con la tragica morte del padre sul luogo di lavoro.
Sono lutti, perdite che possono capitare a qualsiasi bambino che un giorno potrebbe ritrovarsi proprio davanti a una mamma, a un papà, a un fratello o sorella o a una fidanzata/o che diventa tetraplegico/a come Fabo.

Il maestro ha il dovere di iniziare ad alfabetizzare l’essere umano sui temi del dolore, della sofferenza, della perdita. La morte e il lutto non sono questione di esperti, specialisti o dei politici ma sono semplicemente questioni umane. Ad aiutarci a fare da “mediatori” con i bambini, sono i libri. In Svezia e in altri paesi del Nord Europa non manca una cultura bibliografica che racconta ai bambini ciò che è difficile dire con le nostre parole. Ma anche in Italia negli ultimi anni esiste una letteratura che dobbiamo avere ben presente nei nostri scaffali: penso all’Isola del nonno di Benji Davies (edizioni “Giralangolo”) che con una delicatezza e immaginazione inusuale affronta il tema della morte del nonno attraverso il viaggio su una gigantesca nave. Oppure La nonna addormentata di Roberto Parmeggiani e Joao Vaz De Carvalho (edizioni “Kalandraka”) o Beniamino di Elfi Nijssen e Eline van Lindenhuizen che affronta il tema della malattia e della morte di un fratellino. O ancora basterebbe riprendere in mano il mitico Cipì di Mario Lodi per entrare nelle emozioni o Mi nascondete qualcosa di Mélanie Florian. I libri che ci possono aiutare sono davvero tanti.

Qualche anno fa studiai (non per l’Università, ma per formarmi) un testo di Robert Coles, La vita spirituale dei bambini.

Coles, premiato con il Pulitzer per le sue ricerche sulla vita interiore del periodo infantile, scriveva: “I bambini sono dei ricercatori, dei giovani pellegrini ben consapevoli che la vita è un viaggio a termine, altrettanto ansiosi di darle un significato quanto coloro tra noi che sono ben più avanti nel tempo che ci è stato destinato”.

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