Ci sono soprattutto giuristi e docenti universitari, ma anche ex ministri come Franco Bassanini e Tiziano Treu, oltre al costituzionalista Stefano Ceccanti e all’economista Guido Tabellini, professore alla Bocconi di Milano. E ancora Paolo Carrozza del Sant’Anna di Pisa, Angelo Panebianco, Michele Salvati e Salvatore Vassallo. Sono alcuni dei nomi dei 184 primi firmatari del Manifesto per il sì al referendum istituzionale che prendono parte alla campagna Basta un sì sul sito del Partito democratico, on line da lunedì. “Dopo anni e anni di sforzi vani – sostiene il manifesto – il Parlamento della XVII legislatura è riuscito a varare con una larga maggioranza – quasi il sessanta per cento dei componenti di ciascuna Camera in ognuna delle sei letture – una riforma costituzionale che affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”.
Premettendo che la riforma “non stravolge” la Costituzione e che “non c’è forse tutto, ma c’è molto di quel che serve”, l’appello elenca i punti di forza del ddl Boschi: il superamento dell’”anacronistico bicameralismo paritario”, una differenziazione dei procedimenti legislativi tra Camera e Senato; una razionalizzazione dei poteri delle Regioni; “un potenziamento del sistema delle garanzie”; un riequilibrio dei poteri normativi del governo; una riduzione dei costi della politica.
Oltre ad illustrare i punti della riforma, i firmatari chiariscono alcuni punti oggetto di polemica. A partire dagli effetti della riforma insieme all’Italicum. “Giova ripetere che nulla nella legge attuale, in combinato disposto con la riforma costituzionale – scrivono – configura un’anomala concentrazione di poteri”. E criticano l’ipotesi del voto al referendum per parti separate: “Così come tutto si tiene nella Costituzione del 1948, anche nella riforma di cui stiamo discutendo è evidente che superamento del bicameralismo, riforma del procedimento legislativo, razionalizzazione dei poteri regionali fanno parte di un unico disegno che può essere positivamente valutato e non può essere artificiosamente suddiviso per una mal posta esigenza di omogeneità”.
Il testo, aggiungono, “non è, né potrebbe essere, privo di difetti e discrasie. Ma dobbiamo tutti essere consapevoli che, in Italia come in ogni altro ordinamento democratico, le riforme le fanno necessariamente i rappresentanti del popolo nelle assemblee politiche, non comitati di esperti: e nelle assemblee la ricerca del consenso impone compromessi, impedisce astratte coerenze, mette talvolta in secondo piano dettagli in nome del prevalente interesse a un esito complessivo utile”. Ma, chiariscono, “nel progetto, peraltro, non ci sono scelte gravemente sbagliate o oggettivamente divisive (per esempio in materia di forma di governo: l’Italia rimane una repubblica parlamentare!), diversamente da alcuni dei precedenti (Commissione D’Alema 1997-1998, Progetto del centro-destra 2005-2006 per esempio).
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