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Il 12 dicembre 1969, al culmine della stagione di scioperi e di lotte operaie che va sotto il nome di “autunno caldo”, scoppiò a Milano, in una sede della Banca dell’Agricoltura, una bomba che uccise sedici persone, un’altra sarebbe morta di lì a poco, e ne ferì altre ottantotto.

Si trattò della risposta delle forze più reazionarie della società italiana, dei gruppi neofascisti, ma probabilmente anche di settori deviati degli apparati di sicurezza dello Stato, non privi di complicità e legami internazionali, alla forte ondata di lotte sociali del 1968-69 e all’avanzata elettorale del Partito comunista italiano. All’indomani, il settimanale inglese The Observer coniò l’espressione “strategia della tensione”, per designare la strategia eversiva basata principalmente su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici, volti a creare nel Paese uno stato di tensione e nella popolazione un senso di paura diffusa, tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario.

Dopo Piazza Fontana, l’arma stragista sarebbe stata usata ancora: è del 1970 la strage di Gioia Tauro; del 1973 la strage della questura di Milano; del 1974, all’indomani della vittoria progressista nel referendum sul divorzio, la strage dell’Italicus e la strage di piazza della Loggia; del 1980 la strage di Bologna. La strategia della tensione passò anche attraverso l’organizzazione di strutture segrete, in alcuni casi paramilitari e comunque eversive, di cui sono un esempio la Rosa dei Venti, il Movimento d’Azione Rivoluzionaria, i Nuclei di difesa dello Stato e la loggia massonica P2; i collegamenti internazionali, quali le strutture Gladio o Stay-behind; la progettazione e la minaccia di colpi di Stato, come nel caso del piano Solo nel 1964 e del tentato golpe Borghese nel 1970; la sistematica infiltrazione nei movimenti di massa e nelle organizzazioni extraparlamentari, comprese quelle di sinistra, al fine di innalzare il livello dello scontro.

Nel sofferto articolo La violenza di Stato (in Resistenza, XXIV, gennaio 1970, n. 1, p. 3), trascorso meno di un mese dal 12 dicembre 1969, Norberto Bobbio scrisse: “Vi sono fatti inquietanti che non ci permettono di adagiarci nella tranquilla certezza che la violenza sia dall’altra parte, dalla parte cioè della protesta, dei cortei e delle agitazioni studentesche. L’unico modo di riconoscere la violenza è quello di riconoscerla anche quando non scende e grida in piazza, ma si nasconde dietro la decorosa facciata delle istituzioni che difendiamo”. Tra i vapori spessi della manipolazione mediatica e dell’opera di depistaggio s’intuiva, silenziosamente all’opera, l’intreccio di “apparati deviati” e di “poteri occulti”, di “corpi separati” e funzionari infedeli che avrebbe indotto taluni a parlare di “strage di Stato” e suggerito al Maestro torinese l’idea di quello che, alcuni anni più tardi, egli avrebbe definito il “doppio Stato”: uno “Stato normativo”, lo Stato di diritto, cioè, sottoposto all’imperio della Legge, e uno “Stato discrezionale”, libero di operare al di fuori del principio di legalità, “in base a un mero giudizio di opportunità”.

I fatti, purtroppo, hanno confermato questa intuizione. Oggi sappiamo che i protagonisti della Prima Repubblica hanno salvaguardato il bene supremo dello Stato in continuità con il fascismo e sotto il controllo degli americani, affidandosi a una massa di personaggi senza scrupoli, per ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi illegali, senza tuttavia sovvertirlo. Una folla livida ha agito nell’ombra, nel più assoluto disprezzo della volontà popolare: ufficiali felloni, soldati di ventura, artisti del ricatto, sbirri e spioni corrotti, mafiosi, trafficanti di droga, gangster, killer e prostitute. Ed era forse proprio questa guerra sporca e segreta che evocò Arnaldo Forlani, quando a La Spezia, durante un comizio elettorale, il 5 novembre 1972, dichiarò: “È stato operato il tentativo più pericoloso che la destra reazionaria abbia mai tentato e portato avanti, dalla Liberazione a oggi, con una trama disgregante che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato solidarietà internazionali. Questo tentativo non è finito. Noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso”.

Il settimanale Il borghese del 26 novembre 1972 e il quotidiano Il Tempo del successivo 3 dicembre, pubblicarono uno scritto anonimo, già diffuso, comunque, fra i parlamentari, in cui si richiamavano fatti e indicavano personaggi che sarebbero risultati, in seguito, legati al cosiddetto “noto servizio”, e che parve fornire una possibile chiave di lettura dell’allarme lanciato dall’allora segretario della Dc: il capo del governo, Giulio Andreotti, sarebbe stato, secondo l’anonimo, in grado di manovrare, “tramite i suoi fiduciari”, il protagonismo della destra golpista, cosicché il segretario politico del suo partito avrebbe inteso indirizzargli un messaggio chiaro, dicendo di sapere “in modo documentato” che la democrazia correva un serio pericolo a causa dell’esistenza di una “trama nera”.

La cautela, naturalmente, è d’obbligo, ma, dopo quarantatré anni dal discorso spezzino, sparita da quasi un quarto di secolo la Democrazia Cristiana, cambiato il panorama politico sia interno sia internazionale, scoperto il “noto servizio”, morti quasi tutti i protagonisti della strategia della tensione, Arnaldo Forlani potrebbe fornire l’interpretazione autentica delle sue parole, contribuendo così a dissipare il mistero?

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