Abbiamo i profughi appollaiati sugli scogli, ma siamo pieni di “musei dell’immigrazione”, che restano vuoti. Non esiste ancora il Museo nazionale dell’artigianato brianzolo, ma c’è chi si ostina a ritenerlo necessario. Nel Paese dei musei vuoti, che non riesce a tenere in piedi Pompei, deputati e senatori della Repubblica si cimentano in nuove e mirabolanti imprese culturali: dal “Museo delle Carrozze storiche” a Monza, a trazione leghista, a quello dell’artigianato brianzolo. A Cinisello Balsamo, chissà perché, c’è un “Museo nazionale della fotografia contemporanea” per il quale l’onorevole del Pd Matilde Gasparini ha chiesto un rilancio per legge. Il punto è che di pretese come queste ce ne sono a bizzeffe: solo nel corso dell’attuale legislatura sono 13 le proposte di legge per l’istituzione di un qualche “polo museale”, in quella precedente sono state il doppio, per l’esattezza 27. Non tutte vanno in porto, per fortuna. Sono rimasti agli atti della XVesima legislatura il Museo del gorgonzola, il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza e quello del mandolino di Napoli. Non che se ne avvertisse poi il bisogno: con 4.588 strutture aperte al pubblico un comune d’Italia su tre ospita almeno una struttura a carattere museale, un patrimonio quantificato dall’Istat in 1,5 musei ogni 100 kmq, uno ogni 13 mila abitanti. Nella sola Umbria, la seconda regione dopo la Toscana per densità di musei, se ne conta 1 ogni 50 km quadrati: ci sono zone della Penisola che hanno meno ospedali e benzinai.

L’altro problema è che tutta questa fame di cultura, alla fine dei conti, non c’è: per restare in Umbria nel 2011 l’introito delle strutture museali è stato di soli 1,5 milioni di euro e ogni sito ha attirato in media meno di 9mila visitatori, con entrate così basse da non coprire i costi di apertura e mantenimento.  Insomma, spesso è la cultura che mangia erodendo le finanze pubbliche oltre il necessario. Neppure l’evidente incapacità a gestire questo patrimonio scoraggia però i volenterosi “alfieri dell’arte” dal promuovere nuove fondazioni, sedi e comitati scientifici. A patrocinarle sono esponenti di ogni colore politico: i leghisti vogliono il loro museo, i democratici ne hanno in mente altri, i centristi altri ancora. La regola generale della “museite” è: “a ogni partito il suo museo, a ogni eletto la sua mostra permanente”.

Per fare un museo ci vuole il politico
Mi sveglio domani, faccio un bel museo. Non è così semplice. Per arginare le pretese soggettive nel campo dell’arte lo Stato si è dato delle regole e dei “requisiti essenziali”. In ultimo con la legge n.42 del 2004 che fissa criteri giuridico-amministrativi e subordina le autorizzazioni a un “giudizio scientifico il più possibile condiviso” da parte degli esperti del settore di riferimento: critici d’arte, archeologi, architetti, storici etc. Solo i musei dotati di tali requisiti possono essere inseriti negli elenchi dei Musei e delle Pinacoteche del Ministero dei Beni culturali, classificazione che vale come l’oro perché spalanca l’accesso ai fondi pubblici. I politici in molti casi vengono chiamati in causa proprio per forzare questi paletti attraverso la loro potestà legislativa. Un ruolo che in accezione positiva li erge a tutori di istanze localistiche altrimenti snobbate dalle strutture ministeriali, in quella negativa sconfina invece in una sorta di abuso di potere che può assumere anche i tratti tipici del voto di scambio, essendo raramente questo impegno scevro da interessi elettorali sul proprio territorio di riferimento. Non è raro, del resto, imbattersi in politici di diverso colore che si contendono il merito dell’iniziativa di legge a favore dello stesso museo.

Il paradosso dei 30 musei dell’immigrazione
Non è una scherzo, è successo con la proposta di un “Museo nazionale delle Migrazioni” che viene avanzata il 5 luglio 2013 dall’onorevole Fucsia Nissoli (SCpI) e si ritrova riproposta uguale in quella presentata dall’onorevole Pd Marco Fedi il 15 ottobre successivo, tre mesi dopo. Se ne parla dall’autunno 2007, sulla scorta di un convegno internazionale organizzato a Roma. La Finanziaria 2008 stacca anche una dote di 2,7 milioni di euro per istituirlo, successivamente ridotta a due terzi per motivi di risparmio. L’inaugurazione avviene a giugno del 2009 ma oggi mancano i fondi per farlo funzionare. L’onorevole Fedi giura tuttavia che non si può rinunciare, perché è arrivato il momento di unificare le tante esperienze sparse per l’Italia. “Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo – spiega – si è assistito a una vera fioritura di musei locali e regionali della più varia natura, dedicati all’immigrazione italiana”. E non gli si può dar torto: se ne contano ormai una trentina, anche se con caratteristiche espositive e caratura culturale e scientifica della più varia natura. Vi risparmiamo tutto l’elenco (Gualdo Tadino, il Muma di Genova, Fracasso, Malfa, Lucca, Camigliatello Silano (CS), Belluno, San Marino etc). Altre iniziative sono in corso per istituire musei sull’emigrazione lombarda, veneta, marchigiana, molisana e di altre regioni e località. Un vero peccato, rileva l’onorevole Fedi, la dispersione di queste iniziative locali che non hanno pubblico. E allora, sotto con il Museo nazionale delle migrazioni, nel Paese in cui risuonano le grida di chi vuole cacciare immigrati e profughi, adducendo tra i motivi la mancanza di spazi e risorse per l’accoglienza.

A Cinisello il “Museo nazionale della fotografia”
Una delle ultime interrogazioni nel campo dell’arte riguarda il citato “Museo nazionale della fotografia contemporanea”.  Con 31 fondi fotografici e 10mila libri alloggiati nella sontuosa “Villa Ghirlanda” a Cinisello sarà bellissimo, nessuno lo mette in dubbio: ma perché mai proprio a Cinisello? I residenti della cittadina alle porte di Milano, interpellati sul punto, assicurano di non essere a conoscenza di tanta e nobile tradizione nelle arti visive. E tuttavia è dal 1999 che i soci fondatori, cioè gli enti locali lombardi, buttano fior di quattrini in un progetto che non ha mai ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte del Ministero dei Beni Culturali e neppure i visitatori sperati. Solo l’8% del suo costo annuale, che ammonta a circa 1,3 milioni di euro, è finanziato con entrate proprie, vale a dire biglietti venduti e attività promozionali. Il resto è caricato sul gobbo degli enti locali che lo sussidiano. E’ bastato che mancassero i fondi della provincia, circa 200mila euro, per mandare i conti in crisi. Risultato: dopo 10 anni di vita il museo rischia di chiudere. La questione torna di attualità oggi, sulla base di un presupposto quanto mai “incidentale”: la parlamentare che corre in soccorso del museo perché sia dichiarato per legge “bene nazionale”, Matilde Gasparini (PD), è emiliana di nascita ma dal 1973 risiede a Cinisello Balsamo, di cui è stata sindaco per oltre 13 anni e fino al 2012. Nonché presidente della Fondazione del museo per svariati anni.

Prelievi dalle società pubbliche: tutti in carrozza
L’afflato mecenatistico che coglie all’improvviso gli eletti ha però delle regole. Per scoprirle entriamo anzitempo nel preteso “Museo delle carrozze storiche lombarde” a Monza. Ce ne sono diversi sparsi per l’Italia, a Roma, Napoli, Macerata, Catanzaro etc. Alle porte di Milano non c’è e l’assenza per qualcuno è diventata insopportabile. Ci prova allora il leghista (monzese, ça va sans dire) Paolo Grimoldi che presenta un progetto di legge a giugno del 2013. Il testo viene assegnato in tempi rapidi alla Commissione Cultura, previo parere delle commissioni Affari Costituzionali (la carrozza trainata da cavalli, è costituzionale oppure no?), Ambiente (sarà anche ecologica, oppure no?), e Bilancio. L’esame non è ancora iniziato ma il testo chiarisce obiettivi e bisogni dell’iniziativa che non sono da denigrare, va detto: il museo servirebbe a salvaguardare un patrimonio artigiano in via di estinzione, con pezzi rari che altrimenti rischiano di marcire per incuria dei proprietari. E tuttavia si coglie tra le righe la costante dell’onorevole filantropia: costa poco a chi la esercita, molto a chi la subisce. Solo avviare il “museo delle carrozze”, infatti, costerebbe 3 milioni di euro.

Grimoldi però non si scoraggia: un mese prima aveva depositato un’altra proposta di legge, stavolta per l’istituzione del “Museo del mobile di design brianzolo-medese” in quel di Meda. Ancora una volta il punto non è se valga la pena o meno, anche se l’aspettativa di “attrarre visitatori da tutto il mondo” esposta nel testo suona ottimistica. Il punto sono  le coperture. Non viene indicata una cifra perché fa brutto, Grimoldi trova però un modo raffinato per raggranellarla senza farlo troppo pesare: prima ancora delle eventuali “donazioni da privati”, la proposta prevede un “prelievo alla fonte del 5% delle risorse che le società erogatrici di servizi di pubblica utilità destinano annualmente a iniziative promozionali e pubblicitarie”. Insomma, che qualcuno sia disposto a pagare per mettere piede al museo del mobile brianzolo non è sicuro. Ma è certo che saranno poi le tasse dei lombardi a coprire gli eventuali buchi che i tarli del tempo lasciassero in dote ai posteri. E questa sì, è un arte.

Twitter: @thomasmackinson
Mail: 
t.mackinson@ilfattoquotidiano.it

Articolo Precedente

Le telefonate di Renzi e dei suoi generali: istituzioni umiliate, fine della politica

next
Articolo Successivo

Fondazioni e associazioni: 65 think tank, poca trasparenza e tante poltrone

next