Nella mattinata di mercoledì 6 maggio, vigilia delle elezioni più incerte di sempre della storia britannica, pioveva a dirotto a Edimburgo. Ma Nicola Sturgeon, leader dei separatisti scozzesi dello Scottish National Party e “first minister” del governo della nazione più settentrionale del Regno Unito, era convinta che dal giorno dopo la chiusura delle urne a nord del Vallo di Adriano “splenderà il sole, molto sole”. L’obiettivo, chiaramente, è quello di formare una qualche sorta di accordo con il Labour di Ed Miliband, in un esecutivo che, secondo le previsioni, sarà molto probabilmente “di minoranza”, non corrispondendo alla reale maggioranza al parlamento di Westminster.

Ma la politica nel Regno Unito negli ultimi anni si è spaccata come non mai e hanno trovato nuovo slancio partiti come l’Ukip di Nigel Farage, alleato del Movimento Cinque Stelle italiano all’europarlamento di Bruxelles, ma anche gli indipendentisti gallesi del Plaid Cymru e il partito dei Green, che sarebbe la formazione britannica dei Verdi. Ecco così che nella giornata del 7 maggio dalle urne potrebbe uscire un Paese ancora più spaccato, con nessun partito in grado di raggiungere la maggioranza assoluta, 326 deputati sul totale dei 650 di Westminster. La metà più uno, appunto, un obiettivo che pare insperabile anche per il partito conservatore del governo uscente guidato da David Cameron (e che del resto guidava il Paese già con una coalizione con i liberaldemocratici).

Fra il Labour Party e lo Snp di Sturgeon, che secondo molti commentatori potrebbe conquistare almeno 50 dei 59 seggi in palio in Scozia (650 le circoscrizioni previste dal sistema uninominale britannico, così suddivise: 523 in Inghilterra, 59 in Scozia, 40 in Galles e 18 in Irlanda del Nord), potrebbe nascere un matrimonio di interessi. Non una coalizione, Miliband l’ha esclusa più volte e anche negli ultimi giorni. Ma di sicuro un appoggio esterno da parte dei separatisti di Edimburgo, che potrebbe consentire alla sinistra britannica di far passare le leggi in parlamento, con un voto da decidersi di volta in volta, in un laborioso processo di assestamento e consolidamento quotidiano. Certo, rimane ancora in piedi l’ipotesi di coalizione fra Tory e lib-dem, ancora una volta, in un bis. Ma, mentre la quasi totalità dei sondaggi dà la parità fra conservatori e laburisti e mentre il 90% della stampa britannica si è schierato a favore dei Tory, per commentatori e analisti ed esperti di politica l’opzione Labour-Snp pare al momento la più probabile.

Gli indipendentisti scozzesi, proprio coloro che lo scorso 18 settembre hanno provato a spaccare il Paese con il referendum – fallito – per l’indipendenza della Scozia, potrebbero così arrivare a influire, e pesantemente, sulle politiche dell’esecutivo. E la stessa Sturgeon, parlando con la Bbc e altri media, è stata chiara: “Mettiamo il caso che venerdì 8 maggio, di mattina, io mi metta al tavolo con Miliband per capire che cosa possiamo fare assieme per scacciare il partito conservatore. Ecco, in quel caso, non gli chiederò un altro referendum per l’indipendenza, non sarà una delle cose che gli chiederò”.

Sturgeon, del resto, negli ultimi mesi ha vissuto una rimonta. Avendo preso il posto dell’ex leader ed ex first minister Alex Salmond (l’uomo che ha portato la Scozia al referendum), a fine settembre del 2014 non erano in molti a puntare su di lei. Ma una politica sempre più di sinistra, abbinata alla richiesta di porre fine all’austerity imposta da Londra e da Bruxelles, hanno dato in questi ultimi mesi fiato alle sue istanze. Del resto, è proprio quello che la destra teme, cioò che un eventuale accordo di governo Labour-Snp possa portare Miliband e il Paese sempre più a sinistra.

Ma Sturgeon a quanto pare non lo teme, anzi, lo invoca a gran voce, sottolineando anche che “non ho un solo osso anti-inglese nel mio corpo, io voglio il bene di entrambe le nazioni”, intendendo Scozia, appunto, e Inghilterra, le due più popolose del Regno Unito. Un partito separatista – o secessionista o indipendentista a seconda di chi lo definisce – potrebbe quindi presto diventare un supporter (più interno che esterno) al governo centrale e a Downing Street, quindi. Un qualcosa che si è visto più volte in diversi Paesi europei, anche in Italia, seppur con tutte le differenze del caso. Con buona pace per la grande stampa e per quei potenti circoli esclusivi londinesi, che nella mattinata di mercoledì 6 maggio chiamavano a raccolta il Paese contro il “pericolo rosso” che potrebbe “smembrare” un glorioso Regno unito.

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