Mentre il livello della disoccupazione, specie giovanile, ha toccato livelli record, vediamo se siamo d’accordo su di un punto in tema di diritti e quindi anche di doveri in materia di lavoro: ciascun lavoratore dipendente, pubblico o privato, ma soprattutto pubblico per rispetto ai soldi dei contribuenti (visto che un datore di lavoro privato risponde solo a se stesso o agli azionisti) non dovrebbe valere il proprio costo (del lavoro) con la sola eccezione delle categorie svantaggiate (portatori di handicap)?

Nel settore privato questa valutazione è senza dubbio più semplice: basta dividere il fatturato per gli addetti e, se la produttività pro capite è adeguatamente superiore al costo, non solo non licenzio, ma semmai assumo. Nel settore pubblico però, pensiamo ad un Comune o ad una Regione, in assenza di fatturato, come si fa a misurare la qualità dei servizi offerti dal personale per commisurarli al loro costo? Potrebbe bastare il confronto con le realtà più virtuose o anche, a contrario, con quelle meno?

La Sicilia sotto questo aspetto è di grande aiuto, non tanto per le rare best practice, quanto per le tante worst practice da non imitare assolutamente. Pensiamo ai circa 20.000 dipendenti comunali di Palermo, città che da anni ormai conosce una caduta verticale di tutti gli indicatori di qualità della vita urbana: i servizi pubblici offerti alla collettività dal personale comunale ne giustificano forse il costo per la stessa? Non potremmo tenerci lo stesso livello di scarsa qualità dei servizi con un numero inferiore di dipendenti, risparmiando sul relativo costo? In teoria, una città con tanti dipendenti potrebbe pure rispondere ad una audace visione: la prima grande città di categoria 5 stelle lusso, con un rapporto dipendenti/cittadini così alto che questi ultimi non avrebbero neanche il tempo di esprimere un bisogno per vederselo prontamente realizzato. Ma se il livello dei servizi offerto non è questo mentre il costo invece sì, delle due l’una: o si offre immediatamente il livello atteso dei servizi oppure se ne taglia il costo!

Per offrire davvero un servizio di qualità – ed è qui che casca l’asino – bisogna selezionare gli organici per concorso secondo le competenze richieste e mai in base a stabilizzazioni di lavoratori precari addetti ad improbabili mansioni. In questo modo si creano solo stipendifici incapaci di dare risposte efficienti ai bisogni dei cittadini che cercano innanzitutto ordine e decoro urbano, manutenzione delle strade, sicurezza, rispetto delle regole, trasporti pubblici efficienti, razionalizzazione della mobilità e del traffico, cura e tutela dei minori, degli anziani e degli svantaggiati, ecc. Non compete all’amministrazione creare o difendere posti di lavoro improduttivi perché, così facendo, blocca di fatto in un circolo vizioso la nascita di quelli veri, prosciugando in costo del personale i propri bilanci e negando quindi investimenti e servizi essenziali alla crescita civile ed economica. La difesa dei posti di lavoro e dell’ordine pubblico minacciato da misure di “macelleria sociale” sono gli argomenti preferiti dai politici che con le assunzioni parassitarie (a differenza di quelle per concorso) hanno costruito il consenso elettorale a spese dei contribuenti.

Lo stesso dicasi per i circa 30.000 forestali siciliani (con interi paesi a libro paga!) mentre gli incendi puntualmente, ogni estate, devastano l’Isola. Ad un certo punto possiamo pure tenerci gli incendi come per un tragico destino, ma almeno risparmiare sul costo dei forestali per investire semmai in telesorveglianza e in droni telecomandati per spegnere gli incendi! Voglio dire che il settore pubblico deve imparare a lavorare per obiettivi, mancati i quali, devono cadere le teste, a cominciare da quelle dei dirigenti. Che senso ha, parliamo ora di società partecipate, in una regione con la collocazione geografica della Sicilia, assoldare amministratori scelti per fedeltà politica ai vertici di infrastrutture e non in base a competenze professionali certe del settore e magari avallate dai cacciatori di teste?

Perché un lavoratore del settore privato può perdere il proprio lavoro mentre quello pubblico, no? Per quale logica e quale principio di uguaglianza? Possiamo appassionarci al dibattito sull’art. 18 o ad altri temi in materia di lavoro, ma anche questi citati sono argomenti ancora taboo di giustizia sociale che quanto prima ci decideremo ad affrontare, tanto prima consentiranno di sbloccare, nel settore pubblico come in quello privato, lavoro vero e socialmente responsabile. Il problema è, come sempre, che sprechi, abusi e privilegi a carico del’erario non vengono ottenuti con la violenza a mano armata bensì attraverso la leggi con i conseguenti diritti acquisiti che quando tutelano una categoria pur in contrasto con l’equità non sono meno odiosi e ingiusti di quelli contestati negli ultimi venti anni perché ad personam.

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