La decisione di Barack Obama di autorizzare i raid contro l’Isis in Iraq ha preso corpo mercoledì sera. In macchina, di ritorno da un summit con i leader africani al Dipartimento di Stato, Obama ha ascoltato il capo di stato maggiore, Martin E. Dempsey: Erbil, la capitale curda sino a qualche settimana fa lontana dagli echi della guerra civile, era ora alla portata dei militanti sunniti; a ovest, sempre i guerrieri dell’Isis minacciavano i membri delle minoranze. Con i dipendenti del consolato Usa di Erbil improvvisamente a rischio, Obama il giorno successivo ha deciso per l’intervento degli F-18. Un dato appare comunque al momento piuttosto sicuro. L’amministrazione americana non ha nessuna intenzione di allargare l’azione militare e pensa piuttosto a politiche nell’area “solo a patto che le diverse comunità si mettano d’accordo”.

Non si è trattato di una scelta facile – inviare i jet di guerra – per un presidente da sempre riluttante all’uso della forza e che ha costruito la sua campagna presidenziale, nel 2008, proprio sulla promessa di ritirare i soldati americani dall’Iraq. E non si è trattato di una scelta facile perché presa in fretta, sotto la pressione dei fatti, diversamente da quella sull’aumento delle truppe in Afghanistan nel 2009, frutto di mesi di incontri e deliberazioni. Questa volta Obama non ha però potuto rimandare. Da settimane i rapporti dell’intelligence parlavano delle conquiste territoriali dell’Isis. La situazione secondo gli americani è parsa precipitare con la caduta di due città che si trovano a poche decine di miglia da Erbil, Mahmour e Gwer, e la conseguente fuga di migliaia di abitanti dalla capitale curda. I pesh merga, sempre più in difficoltà, chiedevano con insistenza agli americani di intervenire. “Non possiamo reggere a lungo. Non abbiamo un esercito e non abbiamo una forza aerea”, era il messaggio lanciato a Wahington dal generale curdo Jaber Yawer Manda.

L’agghiacciante sorte per migliaia di Yazidi, nel caso fossero finiti nelle mani degli islamisti – schiavitù per le donne e morte sicura per gli uomini – ha dato spinta ulteriore all’urgenza, come pure la minaccia per i funzionari del consolato Usa di Erbil e per le decine di businessman e contractors privati americani che hanno sempre considerato la città curda come un’oasi tranquilla per i loro affari. Questo è stato anzi il motivo che ha fatto alla fine decidere per la partenza dei fighters e della portaerei George H. W. Bush. Dopo il caso dell’ambasciatore J. Cristopher Stevens e dei tre americani ammazzati a Bengasi, Obama non poteva rischiare la vita di altri concittadini né offrire il destro alle accuse dei repubblicani sulla sua “debolezza” in politica estera.

Detto questo, deciso il momentaneo invio degli F -18 in Iraq, Obama non ha comunque nessuna voglia di allargare l’intervento. Il presidente lo ha spiegato chiaramente in un’intervista a Thomas Friedman del New York Times, in cui delinea anche le possibili mosse americane in Medio Oriente nei prossimi mesi. “L’America è pronta a impegnarsi in Medio Oriente soltanto dove le comunità locali concordano sulla politica del né vincitori, né vinti”, ha detto Obama, ricordando che uno dei problemi dell’Iraq è stata proprio la strategia pigliatutto degli sciiti: “Se la maggioranza sciita avesse colto l’opportunità di condividere il potere con sunniti e curdi, e non avesse passato delle leggi come la de-Baathificazione, oggi non ci sarebbe bisogno di un intervento esterno in Iraq”.

Nella conversazione con Friedman, Obama mostra di comprendere la frustrazione di molti sunniti nell’area. “Quello che abbiamo ora è una minoranza alienata e delusa di sunniti nel caso dell’Iraq, e una maggioranza sunnita nel caso della Siria… Se non diamo una formula che parli alle aspirazioni di questa gente, ci saranno problemi gravi… Penso che l’Isis non abbia grande fascino sui sunniti normali, ma che in realtà stia riempiendo un vuoto. Il nostro problema ora è dare soluzioni che non siano soltanto militari”. Obama precisa anche la ragione per cui gli Stati Uniti non hanno mandato già da tempo forze operative in aiuto di Bagdad: “E’ per non dare al primo ministro Nouri al-Maliki e agli sciiti la sensazione che non debbano fare concessioni”. L’unica soluzione, ripete Obama, è quella di un accordo che non decreti “vincitori e vinti” e che crei un Iraq sul modello di quello che negli anni scorsi ha preso forma nelle aree curde. “I curdi hanno usato bene il tempo messo a loro disposizione dalla presenza americana in Iraq. La regione curda è funzionale… e tollerante degli altri gruppi religiosi in un modo che vorremmo vedere replicato altrove”.

Il no a pericolose avventure militari, e l’appoggio alla politica del “né vincitori né vinti” – “i luoghi dove è stata applicata, come la Tunisia, sono quelli che ora stanno meglio2 – è stata ribadita da Obama nell’intervista al Times anche per il caso siriano. Obama respinge l’accusa repubblicana di aver fatto troppo poco per appoggiare i ribelli laici al presidente Assad: “E’ pura fantasia pensare che gli Stati Uniti avrebbero potuto fornire armi a un’opposizione fatta di dottori, coltivatori, farmacisti, in grado di combattere uno Stato ben armato appoggiato dalla Russia, dall’Iran, dagli Hezbollah… Questi ‘ribelli laici’ non avevano la forza sperata”. L’unico rimpianto in politica internazionale del presidente, nella conversazione con Friedman, emerge quando si parla di Libia. “E’ stato giusto intervenire contro Gheddafi, altrimenti la Libia sarebbe diventata quello che è oggi la Siria – spiega Obama – ma noi e i nostri alleati europei avremmo dovuto seguire ed appoggiare con maggiore energia la transizione democratica della Libia”.

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