Sorpresa: il nuovo governo non ci sarà. E quello di Mario Monti, ormai un esecutivo-zombie, un po’ morto ma non del tutto, durerà almeno fino a maggio. Ma più probabilmente fino a luglio, o addirittura a ottobre, chissà.

Il 15 aprile si comincia a scegliere il nuovo capo dello Stato. Che dovrebbe insediarsi dal 15 maggio. A quel punto il mister (o Mrs) X che sarà al Quirinale, riceverà Monti. Il premier rimetterà il mandato – di nuovo – e il capo dello Stato dovrà decidere che fare. Potrà nominare un “governo del Presidente” che abbia come programma quello minimo elaborato – si spera – dai saggi che Giorgio Napolitano ha indicato oggi. Oppure dovrà rassegnarsi a sciogliere le Camere. E i tecnici di Monti rimarranno nel frattempo ancora in carica per gli affari correnti, attraversando così tre legislature.

Sembra un disastro? In realtà questo scenario va bene a tutti. Vediamo perché.

Silvio Berlusconi. Si presenta come uomo di Stato, è lui il vero “responsabile” che è pronto a far nascere ogni governo, era disposto a votare perfino Bersani. Nel caos attuale, può presentarsi come l’usato sicuro, deludente, certo, ma sempre meglio dei pasticcioni apparsi in seguito alla sua dipartita (tanto gli italiani hanno memoria breve, non si ricordano già più il Bunga Bunga e il default imminente). In questa fase di negoziato permanente, il Cavaliere sa di essere un interlocutore per tutti, uno dei pochi punti fermi. E quindi, spera, le Procure non oseranno chiedere il suo arresto, i giudici saranno più miti, il Pd abbandonerà ogni intransigenza e archivierà sia il proposito di renderlo ineleggibile che quello di fare una vera legge sul conflitto di interessi.

Beppe Grillo. La sua è stata una profezia che si è auto-avverata: alla fine ci sarà la grande coalizione, o almeno questo è il tentativo, tra Pd e Pdl. Non per colpa della malasorte o per un disegno preciso del Pd, quanto per esclusiva responsabilità di Grillo. Il leader del Movimento a 5 stelle ha boicottato sia l’ipotesi di un accordo politico con i democratici perché, legittimamente, non poteva accordarsi con un avversario politico diretto come Pier Luigi Bersani. Ma ha affossato anche l’ipotesi del “governo dei migliori”, quello che sarebbe stato guidato da un Rodotà o Zagrebelsky e che avrebbe realizzato una buona parte del programma a Cinque Stelle. Ora Grillo è nella condizione che sperava: opposizione pura, anti-sistema, contro tutti, senza sfumature. Da lì spera di aumentare ancora i consensi, sempre che le gaffe e l’inadeguatezza manifestata finora dai suoi parlamentari, a cominciare dai capigruppo, non portino a una rapida disillusione degli elettori. Adesso il Movimento è sicuro che praticamente tutto il suo programma rimarrà su carta e che non si verificheranno più situazioni tipo quella che ha spinto alcuni deputati grillini a votare Pietro Grasso alla presidenza della Camera. Una vittoria tattica, al prezzo di una sconfitta strategica.

Mario Monti. Il premier in carica non ha più niente da perdere. Non si ricandiderà mai, il suo partito è nato morto, dopo un risultato elettorale pessimo. Al momento è fuori dalla corsa per il Quirinale. Quindi a lui va benissimo rimanere in carica e gestire il complesso avvio del “semestre europeo”, cioè definire di raccordo con Bruxelles il bilancio dell’Italia per il 2014. Rimane in carica, ri-legittimato dal Quirinale dopo che il ministro degli Esteri Giulio Terzi, probabilmente per ambizioni personali, si è dimesso per il caso marò creando un danno di immagine notevole. Il Professore è anche ministro degli Esteri ad interim, cosa che gli assicura il massimo della visibilità internazionale in questa fase. Può recuperare il suo ruolo di garante della politica italiana davanti a mercati e partner internazionali. Potrebbe guadagnarsi una riconferma nel prossimo governo, magari guidare lui un eventuale esecutivo del presidente (scelto dal prossimo capo dello Stato) o avere la presidenza del Consiglio europeo nel 2014.

Pier Luigi Bersani. Politicamente è morto. Ma poteva andare perfino peggio. Se Napolitano avesse provato subito con un governo del presidente, magari con un nome interessante, il Pd avrebbe potuto spaccarsi. Una parte a sostegno del governo, un’altra col segretario. Adesso Bersani guadagna tempo: può cercare di gestire la successione alla segreteria del Pd, tutelando il suo gruppo dirigente di fedelissimi (da sempre una priorità per Bersani). Ha anche la possibilità di accompagnare Renzi alla candidatura a premier o alla segreteria, evitando lacerazioni nel partito. Cosa che aiuterà il Pd a restare compatto ma ridurrà di molto l’appeal del rottamatore. Formalmente è ancora il premier incaricato, ma le probabilità che al termine del lavoro dei saggi e dopo il voto al Colle riesca davvero a diventare presidente del Consiglio sono molto vicine allo zero.

Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze temeva di bruciarsi in questa fase di transizione. Si è solo un po’ strinato, il suo nome è circolato troppo. Comunque sia, ora è considerato il salvatore (del Pd, del Paese, della democrazia…). E non solo dagli elettori del Pd. Potrebbe vincere per acclamazione, anche oltre i suoi meriti. Il protrarsi del vuoto di potere è la condizione ideale per rafforzare la presa sul partito e chiarirsi le idee sulla strategia da seguire per arrivare a palazzo Chigi senza ripetere gli stessi errori di Grillo (squadra non all’altezza, difficoltà di comunicazione, programma vago ecc.).

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