Nel seguire, da osservatore comune, i (più o meno) recenti scandali in tema di rimborsi-spese e, più in generale, di uso “disinvolto” di fondi pubblici da parte di alcuni politici, l’aspetto che più interessa l’appassionato di tecnologie riguarda il motivo per cui la tanto auspicata “trasparenza digitale”, o “apertura dei dati” che dir si voglia, non possa essere utilizzata per prevenire tali eventi.

Mi spiego: se trasparenza digitale deve esserci, ossia se il cittadino ha il diritto di poter vedere, confrontare, valutare, commentare e criticare tutti i dati del settore pubblico, l’ambito delle spese (e, a maggior ragione, dei rimborsi-spese) dei partiti o dei politici è sicuramente un comparto di primario interesse. Non solo ogni centesimo dato ai partiti dovrebbe essere visibile in tutto il suo “percorso” (“partenza” dalle casse dello Stato e “arrivo” sul conto corrente “politico”) e nel suo utilizzo (per cui ogni singola spesa dovrebbe avere, a fronte, una sua giustificazione documentata e una descrizione in grado di fugare ogni interpretazione errata o parziale), ma anche i dati complessivi relativi alla contabilità dovrebbero essere pubblici e messi online a cadenza regolare.

Facciamo un esempio di applicazione della trasparenza digitale al settore dei rimborsi spese dei politici, tema molto di moda in questi giorni. Io suddividerei tali rimborsi, e la loro visibilità digitale, in tre categorie:
i) rimborsi dovuti;
ii) rimborsi legali ma futili;
iii) rimborsi illegali.

Nella prima categoria farei rientrare tutti quei rimborsi correlati alle spese della politica che servono per far fronte immediatamente alla possibilità stessa del politico di svolgere la sua attività. Tali rimborsi, se resi trasparenti, non creerebbero, nella loro visibilitàerga omnes, alcun problema al politico, dal momento che non solo sono giustificabili, ma muovono dalla premessa che la politica abbia un costo.

La seconda categoria, quella del “legale ma futile”, è molto discussa e delicata. Vi farei rientrare quei rimborsi che sono, sì, correlati all’attività politica (e, quindi, in un certo senso, ammessi) ma che vengono percepiti dai cittadini (e dagli elettori) come fuori luogo, immorali, eccessivi, non decorosi o inopportuni. La trasparenza digitale di queste spese è ancora più interessante per il cittadino, dal momento che, oltre a rivelare la destinazione dei fondi, evidenzia anche un profilo (non necessariamente criminale, ma in alcuni casi deprecabile) dell’utilizzatore, e i suoi “gusti” o approcci alla vita politica stessa.

La terza ipotesi è, infine, quella di spese che nulla hanno a che fare con l’attività politica e che evidenziano, quindi, una vera e propria distrazione di fondi a fini personali. Si pensi all’uso di fondi pubblici per organizzare feste di familiari, per acquistare beni privati o accessori che nulla hanno a che vedere con la res publica. L’eventuale trasparenza digitale di questi dati attirerebbe subito l’interesse dei cittadini e dei giornalisti (ben prima di quello delle Forze dell’Ordine), data la facile comprensibilità, anche per il cittadino comune, di un uso “distorto” dei fondi pubblici. D’altro canto, solo un politico sprovveduto terrebbe certi comportamenti contabili di fronte a migliaia di possibili “controllori digitali”.

Ora, la trasparenza digitale e un uso intelligente delle migliori tecnologie, ossia il rendere pubblico online ogni movimento di fondi pubblici accanto a una interpretazione, offerta al pubblico, basata su un rigoroso fact-checking il più possibile depurato da considerazioni personali, sarebbero il metodo migliore per controllare e verificare sia iter sia comportamenti nell’uso dei fondi destinati alla politica.

Certo, ci sarebbero comunque modi per aggirare un sistema simile (si pensi all’accensione di conti segreti, alla circolazione di contante, alla generazione di falsi giustificativi o ricevute), ma un primo obiettivo generale, grazie alla tecnologia, si sarebbe raggiunto.

Se la vera trasparenza cominciasse a essere attuata in settori specifici, anche locali, quali quelli degli emolumenti (e dei rimborsi), i margini per un controllo da parte di tutta la collettività, e non solo delle Forze dell’Ordine, sarebbe ben maggiore.

La realtà è che la trasparenza digitale fa sempre più paura in quegli ambiti dove sarebbe di facile (se non elementare) attuazione ma arriverebbe a scardinare proprio quei meccanismi, basati sul segreto, che il potere vuole mantenere oscuri, perché su quelli basa la sua efficacia.

Al contrario, i più critici verso una trasparenza radicale sostengono che un’idea di una “casa di vetro” porterebbe a una maggiore “anti-politica” se i dati non venissero correttamente documentati e spiegati, con il rischio di fraintendimento globale diffuso e, comunque, con una propensione congenita, nel pubblico, a una interpretazione negativa (o, comunque, critica) dei fatti. 

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