I mafiosi uccidono le donne, a dispetto di tante vecchie leggende sui “codici d’onore”. L’associazione Dasud ne ha contate 150, ammazzate – o indotte al sucidio – per faide, per vendette trasversali, per paura che parlassero, o solo perché passavano per strada nel luogo e nel momento sbagliato. E racconta le loro storie nel rapporto “Sdisonorate”, a cura di Irene Cortese, Sara Di Bella e Cinzia Paolillo (il dossier integrale sarà pubblicato sul sito dell’associazione nei prossimi giorni). Storie conosciute e simboliche, da Lea Garofalo a Rita Atria, da Silvia Ruotolo alla quattordicenne Annalisa Durante, accanto a tragedie dimenticate.

E qui si può solo fare qualche esempio, estratto dalla lunga galleria storie riproposte dal dossier. Graziella Campagna, 17enne della provincia di Messina, uccisa a colpi di lupara a scopo preventivo, perché nella tintoria dove lavorava era finita per sbaglio un’agenda con i recapiti del boss latitante Gerlando Alberti, rimasta nella tasca di una camicia sporca. Annalisa Isaia, ventenne ammazzata dalla zio a Catania nel 1998 perché frequentava i coetanei del clan rivale. Valentina Terracciano, morta nel 2000 a due anni, a Pollena Trocchia in provincia di Napoli, perché si è trovata per caso lungo la traiettoria del proiettile di un killer. Il dossier di da Sud risale nel tempo alla storia di una delle prime “sdisonorate”, la diciasettenne Emanuela Sansone, figlia di una locandiera palermitana sospettata di aver denunciato alla polizia una banda di falsari. La ammazzarono il 27 dicembre 1896.

Donne vittime, ma in molti casi immerse nella cultura mafiosa quanto i boss e i picciotti ai quali per tradizione è demandata la gestione militare degli affari criminali. Il 26 maggio vengono massacrate in un’auto tre donne della famiglia Cava, da anni protagonista di una sanguinosa faida con i Graziano a Lauro, in provincia di Avellino. Qualche giorni prima madri, mogli e figlie delle due famiglie si erano affrontate in piazza a insulti e schiaffi, e le Graziano avevano avuto la peggio. Da qui la strage. Nel 1969, a Mamola in provincia di Reggio Calabria, Maria Immacolata Macrì freddò la zia dell’uomo che aveva ucciso suo figlio durate una rissa.

Il dossier serve innanzitutto a sfatare un’assurda credenza”, si legge nella nota introduttiva. “Che i clan in virtù di un presunto codice d’onore non uccidono le donne. La storia dimostra il contrario: le donne – innocenti o dissidenti o senza la forza di uscire dal giogo mafioso – uccise dalle mafie sono più di 150”. Morte “per l’impegno politico”, per “delitti d’onore”. Oppure che “sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire”. Storie molto diverse tra loro, ma accomunate dall’essere finite vittime “del sistema criminale e socio-culturale delle mafie”.

“Sdisonorate” non è soltanto un elenco di storie. Nelle pagine del dossier il rapporto tra donne e mafia è analizzato tra gli altri da Rita Borsellino, Angela Napoli, Francesca Barra, Celeste Costantino, Ombretta Ingrascì, e arricchito da numerose testimonianze dirette. Tra queste un testo di Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte, assessore comunale della cittadina pugliese di Nardò che aveva denunciato oscure speculazioni edilizie. E’ stata uccisa all’uscita del consiglio comunale il 31 marzo 1984. Aveva appena compiuto 33 anni.

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