E’ sconcertante l’abitudine di certe aree dei movimenti in Italia di svuotare e di disinnescare la forza e il potenziale innovativo dei movimenti stessi, per metterli al servizio di logiche strumentali e mistificatorie, attraverso l’uso di parole d’ordine suggestive, ma decisamente fuorvianti. Prendiamo, ad esempio, l’espressione, ormai dilagante e di moda in diversi ambienti dei movimenti: “diritto all’insolvenza”. Che cosa significa? Qual è l’orizzonte politico e di senso che ci propone, al di là della suggestione?

Parlare di insolvenza in termini di diritto è un non sense. Almeno lo è nella misura in cui non mette radicalmente in discussione il sistema in cui è nato e cresciuto il debito (e il credito). L’insolvenza può di certo essere dichiarata, rivendicata politicamente (cioè della serie: “Io non ti pago, perché non voglio!”), ma non giuridicamente, non perché se ne ha “diritto”. Prima di tutto perché si tratta di un diritto che eccede quello positivo e, di conseguenza, l’intero discorso sdrucciola nella magica sfera del diritto naturale o morale, con tutto ciò che ne consegue in termini di mistificazione. In secondo luogo, perché l’insolvenza, qualora messa in atto, ripetutamente e in ogni luogo del pianeta (a meno che i sostenitori del “diritto all’insolvenza” non intendano far pagare la loro insolvenza alle classi povere delle altre parti del globo), provocherebbe la crisi definitiva di un sistema economico e sociale fondato interamente sul nesso debito/credito.

Ma se ciò dovesse mai accadere, non sarà di certo perché rivendicato in termini giuridici. E’ completamente illogico pensare l’insolvenza in termini di diritto all’interno di un assetto economico e sociale imperniato sul nesso debito/credito. Non bisogna trascurare infatti che, parallelamente al diritto all’insolvenza, a rigor di logica, dovrebbe coesistere il diritto al credito: ha senso parlare di diritto all’insolvenza in un sistema in cui continuano ad esistere il debito, e cioè anche il credito. E allora eccoci di nuovo al punto di partenza.

Evocare il “diritto all’insolvenza” per uscire dalla crisi attuale è, dunque, profondamente mistificatorio e, per alcuni versi, inquietante. Lo è nella stessa misura in cui lo era alcuni anni fa evocare il “diritto di fuga”, come strumento di “liberazione” per gli immigrati. L’espressione (o teoria del) “diritto di fuga” – che richiama l’idea dell’immigrato come fuggiasco, come evaso (con tutte le storiche accezioni negative di cui sono cariche tali figure), piuttosto che quella di un soggetto forzato a emigrare a causa delle dinamiche economiche e delle politiche globali – divenne per lungo tempo egemonica nei discorsi politici di certe aree dei movimenti (più o meno gli stessi che ora evocano il “diritto all’insolvenza”), ma anche in quelli scientifici di alcune aree accademiche.

Bisogna ammettere, anche quella volta l’espressione era suggestiva: “diritto di fuga”. Wow! Peccato però che l’utilizzo di questa espressione suggestiva, pur contenendo la parola “diritto”, nulla aveva a che fare con il diritto positivo. Le sue radici erano sempre nel diritto naturale o morale. Ma vi è di più! L’espressione “diritto di fuga”, a causa delle sue intrinseche ambiguità concettuali, ha finito per giustificare – logicamente e teoricamente – l’approccio poliziesco o bellico dei paesi occidentali nei confronti dei movimenti migratori. Se la “fuga” è un “diritto”, lo è allora altrettanto quello dei custodi dell’ordine e della “sicurezza” di “catturare” i fuggitivi. Legittimo, dunque, sulla base del diritto hobbesiano evocato dalla teoria del “diritto di fuga”, lo schieramento dell’esercito in difesa dei confini occidentali.

La fallacia di simili teorie è apparsa – se possibile – ancora più chiara nelle parole di un lavoratore immigrato di Nardò (Lecce) che, quest’estate, incitando i suoi compagni a scioperare contro lo sfruttamento e il caporalato ha detto: “In Africa c’era lo sfruttamento. Siamo fuggiti. Ma lo sfruttamento ci è venuto dietro.

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