Non dico che me l’aspettassi, ma è successo. Il primo scontro, nel vero senso della parola, con le forze dell’ordine mi ha procurato una frattura composta alla scapola.

E non è uno scontro fortuito, ineluttabile necessità di preservare l’ordine, la causa. No. È l’univoca interpretazione del diritto dell’uomo con la divisa o con il distintivo che, di fronte all’emergenza di tutelare il rappresentante delle istituzioni o della casta dalle domande che potrebbero turbarlo, pensa sia legittimo spingere violentemente una ragazza contro una porta, trascurando, in un solo colpo, principi della fisica e della Costituzione. (Per dovere di cronaca, il fatto è di lunedì 29 novembre 2010 a Milano, palazzo Clerici, e il casuale rappresentante delle istituzioni era Massimo D’Alema)

Non mi lamento. Il danno è relativamente circoscritto ad un paio di settimane di inattività.
Ma che fare, allora, di fronte a questo avviso, non importa se dalla sorte o dal funzionario?
Accettarlo come consiglio a farsi i fatti propri o ribellarsi all’idea che l’abusata ragion di Stato debba prevalere comunque sulla Legge?

C’è qualcosa che non va in questo sistema, che tollera le debolezze interpretative di alcuni (ho scritto alcuni, ad uso di ministri e non, dediti all’indignazione ogni qualvolta si osi parlare di forze dell’ordine in tono meno che encomiabile) quando addirittura non giunge a premiarli.
Ho conosciuto Vincenzo, un italiano emigrato in Irlanda, per pochi giorni in Italia per girare un documentario su come si possa testimoniare l’impegno civile. Ha voluto intervistare anche me, chiedendomi espressamente che cosa pensassi del vicequestore di Brescia del quale, da youtube, aveva colto le gesta.

Ecco, se qualcuno che vive all’estero trova importante formulare questa domanda, significa che altrove, in paesi che giudichiamo avanzati, un comportamento del genere non sarebbe ammesso e, nel caso capitasse, sarebbe punito. Invece pare che in Italia manifestare il proprio pensiero con un corteo, un volantino o una domanda sia giudicato sconveniente e che la prevedibile identificazione, quanto la fortuita manganellata, vogliano avvertire inequivocabilmente il cittadino sui pericoli reali della libertà di manifestare.

E si colpiscono i più deboli, per far loro cambiare idea, o i più rappresentativi, per intimidire chi vorrebbe seguirli, come è successo a Mimmo, uno dei leader del movimento migranti, espulso vigliaccamente come vigliaccamente era stato arrestato e deportato nel CIE, come potrebbe succedere ad Abdelrazach, sceso dalla torre di via Imbonati e ora detenuto in via Corelli.

E così l’espulsione dell’extracomunitario reo di reclamare un diritto o la repressione della cittadinanza defraudata della salute (Terzigno) o della ricostruzione (terremotati davanti a Montecitorio) si riassumono nell’abusato slogan sempre banalmente attuale del “colpirne uno per educarne cento”.

C’è un solo modo per rispondere all’arroganza del potere: non sottostare al ricatto, continuare ad esprimere senza inibizioni le proprie idee, nonostante tutto, come stanno facendo egregiamente gli studenti che hanno occupato i simboli della cultura o come continuano a fare coloro che hanno comunque a cuore le sorti del loro futuro e del nostro Paese, mettendo davvero in pratica le parole di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”.

È arrivato il momento di attuare una delle ultime lezioni che Monicelli ci ha regalato. Una rivoluzione. Con i fatti e con le scelte individuali, quali che siano le conseguenze, perché nulla è peggio di abituarsi allo schifo e diventarne complici.

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