Sostengo da tempo che gli intellettuali abbiano il dovere di ridisegnare la geografia degli scandali. A loro il compito di dettare l’agenda e porre la pietra lungo il cammino. Perché si parli proprio di ciò che la politica evita. Lo fanno alcuni grandi del nostro tempo, come Erri De Luca. Ma tanti altri si lasciano ingabbiare nel recinto della discussione mediatica. I numeri stridenti del rapporto Caritas restano una ferita aperta: quasi 4,6 milioni di persone in povertà assoluta (anno 2015), con un inquietante raddoppio, dal 2007, vale a dire dall’inizio della crisi. Il Mezzogiorno paga il prezzo più alto, costituendo la porzione di territorio più fragile: qui, l’incidenza arriva al 10% e vi si concentra quasi la metà dei poveri del paese. I livelli occupazionali al Sud sono tornati ai numeri di 40 anni fa e si sono persi quasi seicentomila posti di lavoro dal 2008.

Nonostante tutto, i dati recenti dimostrano che il Sud possiede, nonostante anni di tagli e riduzioni delle risorse, la capacità di reagire (Rapporto Svimez 2016) con ricadute positive sul piano nazionale. È il momento di archiviare il periodo neoliberista dell’austerity che si è prodotto in una serie illimitata di effetti recessivi. L’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio parla chiaro, sostenendo che le scarse performance del paese, ormai visibili da ben due decenni, si devono alle “insoddisfacenti performance del Mezzogiorno”. Secondo il Presidente Carlo Sangalli, “la questione Meridionale è una questione nazionale. I dati dicono che l’Italia è un paese sempre più diviso, perché la crisi ha scavato solchi ancora più profondi tra Mezzogiorno e Centro-Nord, sia in termini di ricchezza prodotta, sia di consumi”.

Direi non solo la crisi, ma soprattutto le politiche ottuse che hanno preferito sottrarre al Mezzogiorno persino parte dei fondi di perequazione pur di garantire livelli sufficienti di investimenti pubblici in zone privilegiate del Paese. Senza produrre i benefici auspicati e con il solo esito di aumentare i divari. Insomma, per dolo o ottusità e particolarismo si preferisce, da anni, il palliativo alla cura. Nel seguito, alcuni risultati di quelle scelte scellerate. Secondo il settimo Rapporto Rbm – Censis, nell’ultimo anno ben 12,2 milioni di italiani hanno rinunciato a prestazioni sanitarie. L’anno prima erano 11,1 milioni. I due terzi di questi italiani includono persone sofferenti di malattie croniche, hanno basso reddito, sono donne e non sono autosufficienti. Quasi otto milioni di italiani, per curarsi, han dovuto metter mano ai risparmi o indebitarsi. Siamo alla sanità “di tasca propria” per un ammontare di 35,2 miliardi, ossia circa 580 euro pro capite per anno. Per chi possa permetterselo, ovviamente. Ciò comporta ritardi nelle diagnosi dei tumori e tanto altro. È il segno di una miopia tragica: la mancata prevenzione è un boomerang sotto tutti i profili. Anche quello economico.

Al Sud, solo il 47,3% dei cittadini si dice soddisfatto del Servizio sanitario e il “pendolarismo della sanità” è aumentato dai 3,9 miliardi del 2015 ai 4,3 miliardi del 2016. Inutile dire che non tutti possono permettersi gli oneri di simili trasferte. Lo scandalo nello scandalo risiede nel fatto che a pagare il prezzo più alto, in tutti i sensi immaginabili, siano gli anziani e coloro che vivono nei territori più poveri come molte aree del Sud. Da Chicago, intanto, i 30mila medici riunitisi nel congresso annuale dell’American society of clinical oncology (Asco) fanno sapere che anche in Italia si parla ormai di tossicità finanziaria, cioè il costo economico del cancro e delle relative cure gravanti sui singoli cittadini. Essa si che si traduce in rischio di morte del 20% più alto rispetto per i malati meno abbienti. Un problema che fino a qualche anno fa in Italia non c’era. Ma quanto ci piace il modello americano?

I dati sopra riportati vanno poi interfacciati con quelli del Rapporto Airtum 2016 sulla sopravvivenza dei pazienti oncologici in Italia, che appare assai più alta al Nord. Ecco, queste sono le pietre d’inciampo di un paese che si ostina a non guardarsi dentro, vagheggiando fanfaronesche crescite pagate a carissimo prezzo sociale.

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