E’ un terremoto politico senza precedenti, nella recente politica inglese, quello che si è verificato la notte scorsa. Theresa May ha perso la sua scommessa, il mandato “forte e stabile” che aveva chiesto per poter iniziare i negoziati con Bruxelles sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. I conservatori hanno sì la maggioranza, ma non la maggioranza assoluta. Se vogliono governare, dovranno optare per un governo di coalizione. Il posto della premier è a rischio. Ne chiede le dimissioni Jeremy Corbyn. Ne chiedono l’uscita di scena molti tra i suoi stessi compagni di partito.

Queste elezioni hanno avuto un percorso difficile e pieno di sorprese. Dovevano giocarsi su Brexit, sul tono e significato da dare all’addio della Gran Bretagna all’Europa. Poi è successo di tutto. Due attacchi terroristici, che hanno sospeso la campagna e messo il Paese di fronte alle paure, e agli enigmi, del terrorismo. Una strategia, quella di Theresa May, che si è rivelata debole e piena di contraddizioni. May è sempre stata considerata, all’interno del suo partito e da buona parte dell’opinione pubblica inglese, una politica affidabile e capace.

Questa volta non è andata così. La premier ha rifiutato i dibattiti televisivi. A ogni intervista e apparizione pubblica è apparsa incerta, timorosa, capace soltanto di ripetere a memoria, senza troppa convinzione, gli slogan del manifesto conservatore. Il manifesto conservatore è stato un altro dei problemi. In momenti diversi, per esempio sulla “dementia tax” e sulla questione delle imposte, May si è trovata a fare rapida marcia indietro rispetto a quello che c’era scritto nel documento, aumentando ancora l’impressione di confusione della campagna conservatrice.

Alle difficoltà dei conservatori, ha fatto da contraltare un messaggio laburista chiaro e capace di risuonare presso ampi settori di opinione pubblica, soprattutto tra i più giovani. Jeremy Corbyn non è un politico facile, né particolarmente amato da molti dei suoi stessi colleghi di partito (che hanno più volte cercato di cacciarlo). Ma, questa volta, è apparso tranquillo, efficace nelle apparizioni pubbliche, capace di fissare la campagna del Labour attorno a un tema: il rifiuto dell’austerity, il ritorno a politiche di investimento nell’educazione e nella sanità, la rinazionalizzazione di ferrovie e sistema idrico, l’aumento delle tasse per le grandi corporations e per chi guadagna più di 80mila sterline all’anno.

Questo messaggio di giustizia sociale, di redistribuzione, di speranza in un futuro più benigno (anche se in molti mettono in dubbio la copertura finanziaria delle proposte laburiste) ha conquistato consensi, e seggi, ai laburisti. E’ ancora troppo presto per parlare con certezza dei flussi elettorali, ma a una prima analisi si può dire che il Labour abbia goduto dell’aumento dell’affluenza al voto: il 66 per cento degli aventi diritto, più 4 per cento rispetto al 2015. Molti dei nuovi elettori sono giovani (file record sono state segnalate nei seggi aperti nelle università) e molti di questi hanno scelto il messaggio di speranza e apertura al futuro di Jeremy Corbyn. I laburisti hanno probabilmente recuperato anche alcuni dei voti che nel nord industriale erano andati, nel 2015, allo Ukip, praticamente scomparso dalla mappa elettorale.

Che cosa succederà ora è difficile da prevedere. Si va, con ogni probabilità, verso uno “hung parliament”, un parlamento bloccato. I conservatori, con Theresa May o con chi le succederà, avranno l’onere di formare un governo, che non potrà però che essere di coalizione. I Tories potrebbero anche formare un “governo di minoranza”, che dovrà però, volta per volta, provvedimento dopo provvedimento, cercare l’appoggio delle altre forze politiche. Nel caso i conservatori dovessero fallire, la palla passerà a Corbyn, il cui compito appare però altrettanto proibitivo. I liberal democratici, che hanno guadagnato cinque seggi, hanno già spiegato di non voler entrare in nessuna coalizione. A Corbyn resterebbe un’alleanza con lo Scottish National Party, che non può essere comunque risolutiva e che comunque sarebbe destinata a una vita piuttosto burrascosa.

Come si vede, nessuna tra le possibilità al momento contemplate assicurano la stabilità di cui la Gran Bretagna ha bisogno alla vigilia dell’apertura dei negoziati su Brexit – tra 11 giorni. Probabile una resa di conti nel partito conservatore, con l’abbandono di May (ma anche i suoi collaboratori più stretti, Nick Timothy e Fiona Hill, sono a rischio, accusati di aver stilato un manifesto elettorale debole e di aver tenuto lontano dal cuore dalla campagna elettorale i ministri più esperti). Sicuro un periodo di caos di cui, al momento, non si intravvede l’esito. Lo stesso Nigel Farage, uno degli artefici di Brexit, ha dichiarato che, a questo punto, si fa strada anche la possibilità di un secondo referendum. Qualsiasi coalizione o governo avrà infatti bisogno dell’appoggio determinante dei liberal democratici di Tim Farron. E Tim Farron ha già detto che l’obiettivo è comunque quello di sottoporre a nuova consultazione i negoziati sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, quando questi saranno conclusi.

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