Istanbul stava vivendo una domenica come tutte le altre mentre ad Ankara un’autobomba esplodeva contro un autobus che sostava ad una fermata, uccidendo decine di persone e ferendone oltre un centinaio. Anche nelle ore successive sulle rive del Bosforo, la vita è proseguita senza particolari scossoni. La gente affollava la metropolitana e il Marmaray, il treno sottomarino che congiunge la parte europea e quella asiatica, come se nulla fosse accaduto. I controlli della polizia erano gli stessi di sempre, nessuna misura eccezionale, nessuna frenesia. Eppure anche qui, soltanto a gennaio un uomo si era fatto esplodere nel cuore storico della città, a Sultanahmet, uccidendo una decina di turisti.

In qualche misura, i turchi hanno imparato a convivere con questa situazione. La loro storia recente fatta anche di colpi di stato, terrorismo, omicidi, ha innalzato la soglia di sopportazione della gente. Ma la calma sembra, ormai, anche frutto di una sorta di rassegnazione e, nonostante le apparenze, la Turchia potrebbe essere vicina ad un punto di rottura. Quello di ieri è il terzo attentato che Ankara subisce nel giro di cinque mesi. Ad ottobre era stata colpita una manifestazione pacifista in quello che in molti hanno definito il più grave attacco della storia repubblicana del Paese. Meno di un mese fa un’autobomba si è lanciata contro un convoglio militare uccidendo una trentina di persone, poco distante da dove la città è stata colpita ieri.

Ad ogni attacco aumentano tensione, paura e frustrazione. Senza contare che ogni bomba è una pugnalata in più ad un turismo in crisi nera. In questa situazione, con l’inferno siriano alle porte, il sud-est del Paese in fiamme, gli attriti con la Russia ogni giorno più forti, la Turchia ha subito ieri un attacco diverso dagli altri degli ultimi mesi. “Naked terrorism ” titola un’analisi del quotidiano Hurriyet. Perché quello di ieri, a differenza degli altri firmati ultimamente dal Pkk non aveva come obiettivo esercito o polizia ma la popolazione civile. Ad ottobre era stata colpita una manifestazione di pacifisti (soprattutto giovani dell’Hdp) e anche a Suruc, a luglio, erano stati bersagliati i curdi e i simpatizzanti della loro causa. A Sultanahmet erano stati uccisi dei turisti. Insomma, in qualche modo, i turchi, nella vita quotidiana, potevano illudersi che fosse utile prendere qualche precauzione per evitare gli attentati.

L’attacco di ieri spazza via questa illusione. Si può essere colpiti mentre si aspetta l’autobus, alla domenica sera, in centro ad Ankara. Che sia stato davvero il Pkk, l’Isis o qualcun altro, da questo punto di vista fa poca differenza. Il clima tensione si percepisce anche dalla velocità con la quale scatta l’ormai consueto divieto di trasmettere immagini dell’attentato da parte dell’autorità radiotelevisiva e, subito dopo, dal blocco temporaneo dell’accesso ai social.

Sempre l’Hurriyet, ieri, citava le vaste operazioni condotte contro il Pkk ma parlava anche della difficile posizione del governo di fronte all’ondata di attentati. Il presidente Erdogan e il premier Davutoglu, si leggeva, sono impegnati in sempre più numerose riunioni d’emergenza per far fronte alla situazione e la gente aspetta che questi meeting producano una maggiore sicurezza.

È naturale, infatti, che i turchi si aspettino una reazione del governo. Ma quale tipo di reazione ci potrebbe essere? Dopo, l’attentato Erdogan ha detto, pur senza indicare nessuna organizzazione specifica: “In seguito all’instabilità nella regione, negli ultimi anni la Turchia è stata oggetto di attacchi terroristici. Gli attentati che minacciano l’integrità del nostro Paese, non faranno diminuire la nostra determinazione a lottare contro il terrorismo, ma la faranno crescere ancora di più. Non cederemo mai il nostro diritto all’autodifesa contro le minacce terroristiche”.

Difficile dire se questo discorso preluda ad alcune azioni e a quali. Certo verrebbe da pensare a quanto sta accadendo oltre il confine siriano. I successi delle forze curde dello Ypg (braccio militare del Pyd, vicino al Pkk) sono una costante fonte di preoccupazione per la Turchia. Ankara vede la formazione di uno stato autonomo curdo oltre frontiera come un grande pericolo per la propria integrità territoriale. Senza contare l’esempio delle montagne di Qandil, nel nord dell’Iraq, ormai diventata un santuario per il Pkk che in quella zona ha, ormai, molte delle sue basi. Ankara vuole, a tutti i costi, evitare una situazione simile in Siria.

Il governo potrebbe, quindi, essere tentato di reagire all’attacco con un’incursione oltre confine, da tempo nell’aria. D’altra parte, l’idea di una “safe zone” sotto il controllo turco nel nord del Paese è a sempre stata nei piani di Ankara. Poi l’intervento russo ha sparigliato le carte e mandato all’aria i progetti della Turchia. Il nervosismo di Ankara è palpabile e il riferimento al diritto di compiere ogni azione per fronteggiare il terrorismo è costante. Ma bisognerà fare i conti ancora una volta con la Russia. Vladimir Putin, infatti, secondo alcuni analisti, non starebbe aspettando altro che un ingresso di truppe turche su suolo siriano. E c’è chi giura che se un aereo turco superasse il confine i russi sarebbero pronti ad abbatterlo per restituire il favore al Paese della Mezzaluna che, a novembre, aveva colpito un jet di Mosca innescando una crisi infinita.

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