E dopo Berlusconi iniziò l’era delle larghe intese. Con tre governi che, dal 2011 in poi, si sono dati il cambio a Palazzo Chigi. Da Mario Monti a Matteo Renzi, passando per Enrico Letta, nel ruolo di presidente del Consiglio. Con due effetti evidenti sulla composizione degli esecutivi. A cominciare dalla moltiplicazione dei partiti rappresentati nelle diverse compagini ministeriali. A tenere la contabilità, l’ultimo dossier dell’Associazione Openpolis, dal titolo “Fidati di me” e dedicato ai primi due anni di attività del governo guidato dall’ex sindaco di Firenze.

RITORNO AL PASSATO – Se con l’ex Cavaliere alla guida del Paese le forze in campo si erano ridotte a soli due movimenti (Popolo delle libertà e Lega Nord), da Monti in poi è stato un continuo crescendo. “Attualmente i membri del governo Renzi appartengono a 6 movimenti politici diversi: Partito democratico, Nuovo centrodestra, Scelta civica, Partito socialista italiano, Unione di centro e Democrazia solidale”. Ma non basta. Perché il dato più sorprendente “è il numero di nomi ricorrenti negli incarichi assegnati dagli ultimi quattro premier”. Tra insediamenti e rimpasti, dal 2008 ad oggi sono stati nominati oltre 200 tra ministri, viceministri e sottosegretari. E “nel 30% di queste nomine ricorrono sempre gli stessi volti”. In particolare si contano “trenta persone che hanno svolto o svolgono un ruolo di primo piano in almeno due degli ultimi quattro governi”.

ESERCITO DI GOVERNO – Dal 22 febbraio 2013, data del giuramento del governo in carica, “vari avvicendamenti hanno variato la sua composizione”. Che oggi conta 63 componenti. “Il numero più alto da due anni a questa parte”, sottolinea il dossier. Si va dai 35 membri del Partito democratico ai 13 del Nuovo centrodestra. “Sul gradino più basso del podio, la squadra di indipendenti e tecnici che conta 7 incarichi”. Non solo: “La percentuale di donne e under 40 nel governo Renzi è costantemente in calo dal 22 febbraio ad oggi”. Nel “caricometro” degli ultimi quattro governi stilato da Openpolis spiccano 7 nomi che, dal 2008 ad oggi, hanno rivestito almeno 3 diversi incarichi. “Quattro di questi appartengono al Nuovo centrodestra (Angelino Alfano, Antonio Gentile, Luigi Casero e Simona Vicari), due al Partito democratico (Claudio De Vincenti, e Graziano Delrio) e uno a Democrazia solidale (Mario Giro)”.

CHIAMAMI FIDUCIA – Ma i numeri fotografano anche un aspetto cruciale: la centralità dell’esecutivo nella produzione legislativa del Paese. Se, infatti, “quasi il 30% dei disegni di legge proposti dal governo Renzi diventano legge”, per i parlamentari “non si arriva neanche all’1%”. Non solo. “Nella XVII legislatura le proposte dei due esecutivi che si sono succeduti (Letta e Renzi) sono state approvate mediamente in 156 giorni”, mentre “quelle dei parlamentari hanno richiesto più di un anno (392 giorni)”. Discorso analogo per gli emendamenti: 1 su 2 presentato dal governo viene approvato contro una percentuale di successo del 5,42% e dell’1,25% delle proposte di modifica presentate rispettivamente da deputati e senatori. Insomma, un governo che incide molto più del Parlamento nell’iter legislativo. Grazie anche all’arma della fiducia. Che ha determinato l’approvazione del “31,01% delle leggi” durante l’esecutivo guidato da Matteo Renzi. “La seconda percentuale più alta degli ultimi quattro governi, battuto solamente da Mario Monti (45%)”. Anche se, guardando “i numeri assoluti”, l’attuale primo ministro “supera il primato” del senatore a vita 51 a 49. Inoltre, in 5 casi, il premier in carica ha dovuto richiedere per ben 3 volte la fiducia. E’ successo, ricorda il dossier, per il decreto competitività, il Jobs Act, la riforma della pubblica amministrazione, la legge di stabilità 2015 e l’Italicum.

POCHE RISPOSTE – Poi c’è il capitolo delle interrogazioni parlamentari. “Da quando Matteo Renzi è premier” ne sono state “depositate oltre 21.000” per chiedere “al governo o a un ministro dei chiarimenti su fatti o notizie, o ottenere spiegazioni su specifici provvedimenti”. Ma ad oggi “solo il 35,20% ha ottenuto una risposta”. E alcuni ministeri, “come quello della Giustizia guidato da Andrea Orlando, si fermano al 18,61%”. Fra i più virtuosi ci sono, invece, il dicastero della Difesa (guidato da Roberta Pinotti), quello degli Affari esteri (Federica Mogherini e poi Paolo Gentiloni) e quello dei Rapporti con il Parlamento (Maria Elena Boschi) che hanno risposto rispettivamente al 65,8%, al 70,20% e al 74,29% delle interrogazioni. Mentre “il ministero che ha ricevuto più quesiti è quello dell’Infrastrutture e dei trasporti (Maurizio Lupi e poi Graziano Delrio): oltre 2.131”.

RIUNIONI LAMPO – Dal 22 febbraio 2014 al 5 febbraio 2016, Openpolis ha contato 102 riunioni del Consiglio dei ministri. “In media, poco più di 4 al mese per un totale di oltre 100 ore di lavoro”. Dai resoconti ufficiali, evidenzia il dossier, emerge spesso “la mera formalità di questi incontri, occasione più che altro di raccontare in conferenza stampa decisioni già prese altrove”. Un’affermazione che Openpolis sostanzia con i numeri: “Ben 11 incontri sono durati dai 4 agli 8 minuti, 15 dai 10 ai 20 minuti e altri 7 dai 20 ai 25 minuti. Questo vuol dire che ben 33 incontri (il 32,35%) sono durati meno di mezz’ora”. Il dossier prende in considerazione anche il tema della sovrapposizione di ruoli di parlamentare e di membro del governo. “Ad oggi il doppio incarico parlamentare-ministro riguarda 9 persone”, che in media partecipano “solo all’8,66% delle votazioni elettroniche in aula”. Quando va bene, “come nel caso della ministra (Stefania) Giannini, si arriva al 36,48% delle votazioni in aula”. Quando va male, “per esempio con il ministro Gentiloni”, ci si ferma allo “0,25% di presenze”. Risultato: “L’incompatibilità dei due ruoli è evidente”.

CARA PRESIDENZA – E per finire le spese. “La macchina di Palazzo Chigi, come tutti gli organi dello stato, ha dei costi”. E Openpolis ha preso “in esame le entrate e le uscite della Presidenza del consiglio dei ministri”, includendo “sia le attività e le funzioni del premier, sia quelle dei vari dipartimenti”. Dalle politiche antidroga, alla protezione civile, passando per le politiche europee, gli affari regionali, “sono stati analizzati i conti finanziari dal 2011 al 2014, per un volume di spesa che in totale supera i 15 miliardi di euro”, basando la ricerca sui “bilanci consuntivi, che non considerano quindi solo le previsioni di inizio anno, ma che calcolano anche le cifre effettivamente impegnate nel corso dei mesi”. Con le riforme realizzate da Mario Monti, “il budget totale è sceso sui 4 miliardi di euro annui”. Nel 2013, anno del governo Letta, “il bilancio consuntivo è stato ridotto a 3,5 miliardi”. Ed “è risalito poi con il primo anno di governo Renzi a 3,6 miliardi”.

SEGRETARIATO DI LUSSO – La voce principale di spesa riguarda sempre la protezione civile. “In media parliamo di oltre il 60% del budget” (il 62,14 contro il 69,33 del 2013). Tra i costi più pesanti ci sono anche quelli del segretariato generale. “Si tratta delle spese a supporto dei compiti della Presidenza, e all’organizzazione e alle gestione amministrativa”. Una voce che “sotto il governo Renzi” è “passata dall’11% al 20% del totale”. Un livello “record nella storia recente”, sottolinea il dossier: “Se nel 2013 parlavamo di 396 milioni, nel 2014 si sono raggiunti i 754 milioni”. In crescita, sempre rispetto al 2013 (governo Letta), anche la spesa per la gioventù (dal 4,1 al 5,85%), mentre scendono quelle per l’editoria (dal 7,61 al 6%), per gli affari regionali (dal 3,69 al 2,87%) e la funzione pubblica (dall’1,34 all’1,16%).

Twitter: @Antonio_Pitoni

 

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