L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti.

I PM: “ERRATA RAPPRESENTAZIONE DEL FENOMENO”
“Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce – . Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo.

“MISURE INIDONEE”
“Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati – hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”.

LE ORIGINI: LE SPERIMENTAZIONI “ILLECITE” DI PESTICIDI MONSANTO E BASF
I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”.

“XYELLA ARRIVATA ANCHE TRAMITE LO IAM”
Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”.

I FUTURI FILONI D’INCHIESTA
L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Puglia dopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo.

Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. 

Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.

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