Per la procura di Palermo era in contatto direttamente con il superboss Nitto Santapaola, diversi collaboratori di giustizia lo indicano come trait d’union tra Cosa nostra, gli uomini dei servizi d’intelligence e la massoneria, mentre secondo la corte d’appello di Messina è soltanto un mafioso come tanti altri. È per questo motivo che da ieri l’avvocato Rosario Pio Cattafi non è più detenuto in regime di 41 bis nel carcere di L’Aquila: per lui i giudici della corte d’appello peloritana hanno ordinato la scarcerazione. Il motivo? Nella condanna di secondo grado è scomparso l’aggravante che vedeva Cattafi accusato di essere il capo promotore dell’associazione mafiosa e quindi il boss della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto. Per i giudici della corte d’appello, in pratica, Cattafi è un mafioso ma non è il capo del clan, e ha fatto parte di Cosa nostra solo fino al 2000: è per questo che hanno “scontato” la condanna di primo grado, portandola da 12 a 7 anni di carcere. La corte presieduta dal giudice Francesco Tripodi ha inoltre ritenuto inesistente il rischio di pericolo di fuga dell’imputato, valutando addirittura come nulla la sua pericolosità sociale: con queste motivazioni ne ha ordinato il rilascio. Torna libero dunque quello che per molti collaboratori di giustizia è stato l’uomo cerniera tra Cosa nostra, la massoneria coperta e gli 007: un ruolo omaggiato da un curioso soprannome,“Sariddo dei servizi segreti”. “Cattafi era uno molto potente, per noi era più importante degli altri uomini d’onore, ci faceva dei favori, degli omicidi e loro ci facevano passare della droga, coprivano i reati diciamo. I favori li faceva ai servizi segreti. E loro in compenso, se lui passava delle armi o grossi quantitativi di droga, non lo arrestavano”, racconta di lui il pentito Maurizio Avola.

Una laurea in legge, i rapporti mai dimostrati con Stefano Bontate e un curriculum criminale che comincia a Milano, tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90, quando Cattafi finisce coinvolto nell’inchiesta sull’autoparco di via Salomone a Milano, quartier generale di un’organizzazione criminale borderline. Ma non solo. Perché Cattafi nei tre anni da detenuto ha trovato anche il tempo di ritagliarsi un ruolo da testimone d’eccezione al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Dopo il suo arresto l’avvocato di Barcellona chiede e ottiene di parlare con i magistrati palermitani che indagano sul patto occulto siglato dalle Istituzioni e la mafia. A loro racconta che nel 1993, quand’era detenuto per la storia dell’autoparco, ha ricevuto una richiesta originale da Francesco Di Maggio, l’allora vicecapo del dipartimento amministrazione penitenziaria: “Dovevo contattare Santapaola, per cercare di fermare le stragi”, dirà snocciolando il suo inedito racconto, quasi impossibile da verificare. Che però sembra aver allertato l’Aisi, l’agenzia informazione e sicurezza interna: quando Cattafi chiede ai secondini di parlare con in pm della Trattativa, gli 007 inviano a Giovanni Tamburino, allora capo del Dap, una richiesta “urgente” per conoscere la situazione carceraria del boss barcellonese, le persone con cui parla, i colloqui ottenuti da detenuto. Un’istanza che lo stesso Tamburino definirà irrituale e inspiegabile, proprio nei giorni in cui tra Roma e Palermo si evoca il Protocollo Farfalla, l’accordo tra carcerieri e uomini dei servizi per la gestione dei detenuti mafiosi: informazioni e confidenze raccolte dietro le sbarre mai arrivate sui tavoli di un pm.

 

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