Londra, quattro anni fa. Il giorno dopo che Simone Speggiorin mette piede al Great Ormond Street hospital gli affidano il turno di guardia. Ha 32 anni e ha appena concluso la specializzazione in cardiochirurgia pediatrica all’Università di Padova. Tanti libri, tanto studio, poca, pochissima pratica in sala operatoria. “Anche se tu vuoi fare esperienza, non te la lasciano fare”, confessa Simone con l’amaro ancora in bocca. In Italia, purtroppo, funziona così: “Durante la specializzazione – spiega – non operi, le operazioni le guardi e basta. Finiti gli studi ottieni un diploma, sei legalmente abilitato a fare interventi, ma non ne sai fare mezzo”. Non solo. “Poi ti assumono ma non ti affidano pazienti, non vai a fare operazioni da solo, fino a 45 anni fai l’assistente del professore, decide lui per te e prima di te, in coda, ci sono tanti altri dottori che da anni aspirano a un posto”.

Insomma, se fosse rimasto in Italia, avrebbe campato da precario. In Inghilterra invece sa che le regole del gioco sono diverse. “Qui durante la specializzazione fai un training di almeno 300 operazioni e se l’ospedale ti prende usi bisturi e ferri, non fai finta”. Allora prepara i bagagli, prende un volo low cost e dice addio a Olmo di Martellago, in provincia di Venezia, il paese dove è nato e cresciuto. Una scelta che gli spiana la strada verso una carriera fulminea. Oggi Simone ha 36 anni, lavora al Glenfield hospital a Leicester ed è il primario più giovane del Regno Unito. Lui però ridimensiona il successo: “Qui non c’è un sistema piramidale come il nostro, ogni chirurgo è a capo della propria unità, ha i suoi pazienti e la sua sala operatoria. Comunque sì, detto così, sono il più giovane”.

Cura i bambini con malformazioni cardiache, fa tre interventi alla settimana a cuore aperto, inizia alle 6.30 del mattino e stacca senza orari, a volte anche a tarda notte. Altro primato: è il chirurgo con meno anni in Europa ad avere eseguito un trapianto di polmoni su un bambino di soli sei mesi. E poi nel marzo 2010 era nell’equipe che per la prima volta al mondo ha fatto un trapianto di trachea su un bambino, utilizzando le cellule staminali del paziente.

A settembre la BBC gli dedica uno speciale radiofonico. Il focus è l’attività che svolge in India. “Aiuto i medici di un ospedale di Mumbay grazie a una charity che finanzia per metà gli interventi. Ci vado quattro volte in un anno”. L’organizzazione di beneficienza è nata a Leicester, dove nel corso degli anni si è radicata una grande comunità di immigrati indiani. Prima di spiccare il volo oltremanica, Simone si costruisce il nido con santa pazienza. “A tre anni dalla laurea ho iniziato a studiare su testi in lingua inglese, scrivere in inglese, guardare film in inglese” racconta. Quando arriva a Londra se la cava con i termini tecnici, del suo lavoro, un po’ meno con i dialetti stretti dei genitori dei suoi piccoli pazienti che vengono da tutte le parti dell’isola. “Tornavo a casa alla sera con il mal di testa – ammette -. Ma sapevo che mi sarebbe bastato allenare l’orecchio ancora un altro po’”. Così è stato. Ora va molto meglio. E se parla in italiano la cadenza veneta non l’ha ancora persa.

Gennaio 2012. Dopo tre anni a Londra si sub-specializza in chirurgia tracheale e cardiochirurgia pediatrica. Pubblica articoli su diverse riviste scientifiche, si fa conoscere in giro e soprattutto sviluppa “il lateral thinking, la mentalità del chirurgo anglosassone”. Simone chiarisce al volo: “Impari a pensare e muoverti in squadra, tenendo conto del parere di infermieri, anestesista e assistenti. Le decisioni finali sono di gruppo, non come in Italia dove il professore agisce in autonomia”. Aggiunge anche: “Qui dopo il lavoro si va al pub tutti insieme”. Simone però deve completare il training, quello che l’Università italiana non gli ha garantito. Così si dà da fare da solo, alza la cornetta e si cerca l’ospedale dove praticare il più possibile. Alla fine lo trova a Bengalore, in India, dove sa che hanno bisogno di lui perché ci sono tantissimi bambini affetti da malformazione al cuore e i medici non sono abbastanza. Ci sta dieci mesi e accumula 300 interventi: “Operavo dai 3 ai 5 casi al giorno, sei giorni su sette”. Ora ha le carte in regola per fare il chirurgo a 360 gradi. Quindi ritorna in Inghilterra e si trova subito di fronte a un bivio: gli offrono due posti, uno a Leicester e l’altro a Sidney. Simone opta per il primo, così è più vicino alla sua famiglia.

Cosa sarebbe accaduto se fosse rimasto in Italia? Silenzio. Poi attacca: “Nel 2010 da Londra mi sono iscritto a un bando per un posto all’ospedale pubblico di Ancona ma non ho più avuto risposte: pensavo che non gli fosse piaciuto il mio curriculum. Invece, il 28 agosto 2013 mi è arrivata una lettera a casa in cui mi invitano a partecipare al concorso indetto tre anni fa. Io gli ho telefonato e gli ho detto ‘No, grazie’. Questa è l’Italia”. Quando i giornali del Veneto hanno scritto di lui per la prima volta, è stato bombardato di mail da parte di molti studenti in Medicina. “Esprimevano malessere e mi chiedevano consigli su come trovare lavoro all’estero”. E lui ai giovani raccomanda questo: “Siamo abituati a pensare che le occasioni cadono dall’alto e invece non è così! Bisogna andarsele a prendere. Il mondo è grande, non serve neanche fare il visto per viaggiare nell’Unione europea”. Nonostante il successo, la voglia di mettersi in gioco a Simone resta, eccome: “Sto sviluppando una specie di clinica via skype: i pazienti possono prenotare le visite a distanza. Spesso infatti abitano a due/tre ore di macchina. Io gli comunico i rischi e i benefici dell’intervento (già deciso con il team). La consulenza via Skype però non può sostituire la visita clinica vera e propria. Se hanno dubbi nella fase post operatoria possono prima contattarmi online. In questo modo l’ospedale risparmia molti soldi ed è meno affollato”.

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