“Contro i terremoti non vale la fuga”, scriveva Francesco Petrarca nel 1349. Nel 2013, Elisabetta D’Anastasio invece di fuggire i terremoti li ha inseguiti. Un viaggio che, con una laurea in scienze geologiche e un dottorato in geofisica in tasca, l’ha portata da Roma dove lavorava all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), al Gns Science di Wellington, dove si è trasferita da sei mesi. Ciò da cui è fuggita, invece, è una situazione di precarietà lavorativa che durava da tanto, troppo tempo.

“Ho lavorato per dodici anni all’Ingv. Ci ho messo sempre molta passione, perché è una professione che amo, ma negli ultimi tempi la situazione era diventata insostenibile. Nel mio istituto sono ormai anni che più di duecento ricercatori, tecnologi e tecnici vivono in un limbo di precariato. Negli ultimi sette anni – racconta un po’ commossa – abbiamo lottato per ottenere la possibilità di lavorare senza pensare ogni sei mesi al contratto in scadenza. E durante questo periodo le nostre proteste sono state messe immediatamente da parte ogni volta che un’emergenza sismica o vulcanica richiedeva un impegno ancora maggiore”.

E così la decisione di fare le valigie. “Mi ero stufata di aspettare una risposta. Così, quasi per gioco ho scritto il mio curriculum in inglese. Ma con la ferma decisione di spostarmi solo in caso di contratto fisso”. Intanto, infatti Elisabetta si era sposata e aveva avuto una bambina. “Mi hanno contattata da Wellington, hanno aspettato che mia figlia avesse un’età adeguata per affrontare il viaggio e mi hanno fatto il colloquio. Poi hanno detto che mi volevano con loro”. Da lì, la partenza. In poco tempo, però, il suo viaggio diventa una storia di passione e ritrovata dignità nel lavoro.

I 18.530 chilometri di distanza dalla capitale italiana, a detta di tutti i suoi amici, l’hanno aiutata a far tornare il suo viso più rilassato: “Da quando sono qui è ricominciato a piacermi tanto il mio lavoro. Il sistema anglosassone è organizzato molto meglio e l’assenza di quel sottile ricatto che è il precariato mi ha aiutata in fatto di serenità. E poi ora posso passare del tempo di qualità con mia figlia”. Le sue mansioni sono più o meno le stesse, “anche se il mio merito viene riconosciuto maggiormente, c’è meno competizione, ognuno ha una mansione specifica ed è più facile fare carriera. Inoltre, se fai bene, ogni anno è previsto un aumento, seppur minimo, dello stipendio”. A questo si aggiunge una netta separazione della sfera lavorativa da quella familiare: “Qui c’è maggiore rispetto della vita privata. Una volta il direttore ci ha ringraziati con una mail per essere rimasti oltre l’orario di lavoro perché c’era stata un’emergenza. E con noi ha ringraziato le nostre famiglie per la pazienza”.

Rimane il paradosso di un Paese che l’ha formata, spendendo cifre consistenti, per poi non riuscire a sfruttare ciò che aveva: “All’Italia manca l’organizzazione, la sensibilità ma soprattutto la lungimiranza. Ho calcolato che per la mia formazione, tra stipendi, missioni e convegni, l’Ingv ha speso più di 500mila euro. Per poi lasciarmi andare”. Ma la storia di Elisabetta è anche una storia d’amore: a prendere l’aereo con lei infatti c’erano anche suo marito Kim e sua figlia Irene, che ora ha un anno e mezzo. “Ho avuto la fortuna di sposare un uomo molto coraggioso, che è venuto qui senza sapere l’inglese. Ora lo sta studiando, grazie a un corso offerto dal governo neozelandese per agevolare gli immigrati, poi vorrebbe continuare a lavorare nel campo del cinema, come faceva in Italia”. E c’è sua figlia: “Non so se in Italia mi avrebbero assunta in quanto neo mamma, qui lo ritengono un valore aggiunto. E poi sono felice di crescere Irene in un luogo dove i bambini sono molto rispettati e dove ovunque c’è un posto dedicato a loro, per consentirgli di giocare”. A casa ci sono nonne e bisnonni dispiaciuti, ma non c’è nessun pentimento.“Quando ho spedito la lettera di dimissioni all’Ingv ho fatto un sospiro di sollievo, venire qui è stato come ricominciare a respirare aria fresca. Tra qualche giorno, poi, andiamo anche a parlare di mutuo in banca, cosa che in Italia non avrei potuto fare. Gli unici aspetti negativi sono il costo alto della vita e i formaggi cattivi. Ma la mancanza del parmigiano non mi sembra un buon motivo per rientrare”.

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“A Dubai ho un contratto di lavoro serio. In Italia ero troppo qualificato”

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