Fumi di acciaieria, gas velenosi, fanghi tossici, scorie radioattive: a Portovesme, piccola Taranto del SulcisIglesiente, al polo industriale e al business dei rifiuti vengono sacrificati agricoltura, turismo e salute. Poco importa se a Carloforte, comune a 9 km di distanza sull’isola di San Pietro, nell’acqua piovana i valori di cadmio, piombo e alluminio sono fino a 60 volte oltre i limiti di legge. E se il 40 per cento dei bambini ha malattie alla tiroide. “Solo due settimane fa”, denuncia Salvatore Casanova del comitato Carlofortini Preoccupati, “a Portovesme è arrivata da uno scalo greco una nave carica di scorie radioattive, contaminate da Cesio 137”. La società ellenica che ha dato il via libera è stata sospesa dal trasporto, ma nel piccolo porto sardo i materiali di scarto destinati ad essere trasformati in materie prime secondarie continuano ad arrivare. Il tutto senza che ci sia un controllo pubblico, grazie a una Legge Regionale del 2001 con cui la Giunta Floris, accusano gli attivisti, permise di “trasformare la Sardegna nella discarica radioattiva d’Europa”.

Ma la bomba ecologica della provincia di Carbonia-Iglesias non si limita a questo. Oltre a rifiuti radioattivi e alle polveri, ci sono i fumi del polo industriale e della centrale Enel “Grazia Deledda”, una delle più inquinanti d’Europa, funzionante a carbone, olio combustibile e biomasse, le cui ceneri finiscono in una vicina miniera di carbone trasformata in discarica. E un gigantesco bacino di fanghi tossici, generati negli anni scorsi dalla lavorazione della bauxite: un sito a poche decine di metri dal mare, messo sotto sequestro nel 2009. Che, già sprofondato di 10 metri, rischia di contaminare irreparabilmente costa e falde acquifere.

Nel porto di Portovesme, da dove parte l’unico traghetto per l’isola di San Pietro, lo scarico di rifiuti, biomasse o carbone avviene proprio in fianco all’imbarco “senza nessun tipo di controllo”, spiega Casanova: “Potete quindi immaginare tutte le polveri che si sollevano durante le fasi di carico e scarico di questi materiali che noi residenti, e in questo periodo anche i turisti, siamo costretti a respirare”. Polveri che si uniscono alle sostanze nocive presenti in atmosfera provenienti dal polo industriale.

E i danni sulla salute delle popolazioni locali non mancano. “È stato fatto uno screening l’anno scorso a Carloforte, e il 40% dei bambini è affetto da malattie tiroidee”, sottolinea l’attivista: “Noi come comitato abbiamo fatto invece analizzare dell’acqua piovana e abbiamo trovato valori di cadmio, piombo e alluminio che vanno dai 20, 30 fino a 60 volte oltre i limiti di legge”.

Il protocollo di indagini diagnostiche a cui si riferisce Casanova risale al 2011, quando i dati, seppur parziali, hanno tracciato un quadro preoccupante della situazione: delle 62 persone controllate, tra alunni e personale scolastico, “a 25 sono state riscontrate alterazioni alla ghiandola tiroidea e consigliati ulteriori accertamenti: oltre il 40 per cento del campione”, rivela il comitato civico. Mentre nel resto della popolazione “su 95 persone, a 36 sono state riscontrate alterazioni e consigliati ulteriori accertamenti: il 38 per cento dei casi”.

Secondo Vincenzo Migaleddu dell’Isde Sardegna (Associazione dei Medici per l’Ambiente), i dati di questo screening sono “evidenti ed eclatanti” e, oltre a confermare la Sardegna come regione più contaminata d’Italia, dimostrano che “buona parte di queste patologie, soprattutto nei giovani, sono di origine ambientale”. “Il problema – spiega il medico a ilfattoquotidiano.it – è però che per confermare questa correlazione servirebbe uno studio specifico, come quello che è stato fatto a Taranto”. “Ma nessuno qui vuole una cosa del genere, tutti si guardano bene dal farla”, aggiunge.

Il Sulcis in questo momento è la regione più povera d’Italia, per cui il ricatto del lavoro è sempre presente”, conclude Migaleddu: “Anche se questo modello industriale fuori dal tempo andrebbe del tutto rivisto. Se non altro per il consumo di risorse e i costi sanitari che comporta”.

Un problema anche culturale, insomma, che come a Taranto motiva ulteriormente i comitati come il Carlofortini Preoccupati: “Chiediamo innanzi tutto una bonifica immediata, per cui servirebbero dai 30 ai 50 anni di lavoro, e di integrare la dismissione di queste industrie con lavori legati alla cantieristica o al turismo, che possano far decollare questo territorio dalle bellezze incredibili”. “Purtroppo – conclude Casanova – i nostri appelli rimangono inascoltati, perché la Provincia e la Regione sembrano incentivare queste fabbriche, e non vogliono saperne di dismissione, o di attuare effettive politiche di cambiamento”.

Articolo Precedente

La crisi non esiste, ho le prove…

next
Articolo Successivo

Sicilia, il piano energetico di Passera riapre la corsa al petrolio

next