Colpi di scena, fino all’ultimo, al processo per l’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Che, quasi undici anni dopo i fatti, l’11 giugno approda in Cassazione e il 15 potrebbe arrivare a sentenza definitiva. A pochi giorni dall’appuntamento, però, cambia il presidente del collegio: Giuliana Ferrua sostituisce Aldo Grassi, noto fra l’altro per aver guidato i giudici che hanno annullato la condanna di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa.

Un caso non comune, anche perché il nuovo presidente avrà decisamente poco tempo per studiare un  caso complesso, con 25 imputati tra dirigenti, funzionari e agenti di polizia, comprese alcune figure di vertice degli apparati investigativi italiani. Come Franco Gratteri, capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell’Aisi, l’ex Sisde. Tutti presenti, la notte del 20 luglio 2001, davanti alla scuola del blitz che si concluse con 93 arresti e 60 feriti tra i manifestanti che dormivano nell’edificio, poi prosciolti in blocco da ogni accusa. 

Il cammino del processo è stato tortuoso. Dalla sentenza della corte d’appello di Genova del 18 maggio 2010 sono passati più di due anni, un tempo fuori da ogni consuetudine anche per la disastrata macchina giudiziaria italiana. Qualcosa si è inceppato nelle notifiche della Corte d’appello agli imputati sparsi in varie città italiane, mentre correva il tempo della prescrizione. Così, paradossalmente, sono già cancellati i reati “violenti”, come le lesioni, e resta in piedi soltanto il reato di falso in atto pubblico (che si prescriverà nel 2013), a carico di chi firmò i verbali di arresto e perquisizione, zeppi di elementi che poi si sono rivelati falsi, come le due famose molotov attribuite ai manifestanti, ma in realtà portate sul posto dagli stessi poliziotti. Il reato di concorso in falso è contestato anche ai pezzi grossi del Viminale, che non firmarono, ma avvallarono quei verbali.

Sarà questo uno dei nodi centrali del processo. Perché undici anni dopo, lo Stato non ha ancora chiarito chi comandasse l’operazione alla Diaz. Gratteri, Caldarozzi, Luperi – e il prefetto Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 – erano i più alti in grado sul campo, espressione diretta del capo della polizia Gianni De Gennaro, recentemente uscito di scena con l’assoluzione definitiva in un processo collaterale per induzione alla falsa testimonianza. Ma dal punto di vista formale non avevano potere di comando sul gran miscuglio di reparti – dai “celerini” alla Digos, agli uomini di diverse Squadre mobili – che entrò nella scuola per portare a termine un’operazione condotta “non solo al di fuori di ogni regola e di ogni previsione normativa, ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone”, si legge nella sentenza di primo grado del Tribunale di Genova del 10 febbraio 2009. La separazione tra comando formale e sostanziale è stato il cavallo di battaglia dei difensori degli alti dirigenti nei primi due gradi del processo.

A ingarbugliare la matassa è arrivato anche un errore materiale nella stesura della sentenza di secondo grado rispetto al dispositivo letto in aula, che il legale di qualche imputato potrebbe far valere per annullare tutto. Ma qualche colpo di scena potrebbe esserci anche sul pronte dell’accusa. Il sostituto procuratore generale Pietro Gaeta sembra orientato a chiedere che le lesioni, prescritte, siano trasformate in tortura. Un reato che nel nostro ordinamento non esiste (furono soprattutto le resistenze della Lega nord a impedirne l’approvazione in Parlamento negli anni scorsi), ma l’ostacolo può essere superato appellandosi direttamente alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.  

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