C’è un luogo nel mondo – un luogo conosciuto come Cuba – dove amare Fidel è, non solo un dovere di Stato, ma un prerequisito per godere dei diritti di cittadinanza. Se ami Fidel – e se il tuo amore per Fidel non mostra, in nessuna sua parte, la crepa d’un dubbio – sei un cubano. Se invece non lo ami – o se il tuo amore non raggiunge i necessari standard di venerazione – non sei, per chi governa, che un alieno, un traditore della patria o, per meglio dire, un “ripudiato”. Poiché proprio così – actos de repudio– il governo usa chiamare quella molto particolare variante dello squadrismo – di fatto una sorta di parodia guidata d’una “spontanea” mobilitazione popolare  – con la quale è solita castigare l’assenza o l’insufficienza d’amore verso il “líder máximo”. C’è poi, nel mondo, un altro luogo – una città chiamata Miami che da Cuba è separata da un braccio di mare largo 100 miglia e che di Cuba è, in alcune sue parti, l’immagine capovolta – dove amare Fidel è, invece, assolutamente, ferocemente proibito. Anzi, dove è obbligatorio odiarlo, Fidel. E odiarlo d’un odio senza sfumature, senza distinguo, senza se e senza ma, un odio totale che, se trasgredito, è anch’esso, come il totale amore reclamato dall’altro lato dello Stretto della Florida, causa di “repudio”.

Ed esattamente questo – un prolungato, implacabile  acto de repudio, conseguenza d’un peccato d’amore (o di non sufficiente odio) – è quel che ha in queste ore colpito, anzi, che ancora sta colpendo, il venezuelano Oswaldo “Ozzie” Guillén, in anni non lontani (tra l’85 ed il ’92) splendido shortstop (l’uomo tra la seconda e la terza base) dei White Sox di Chicago e, da tempo, tra i più rinomati e “pittoreschi” allenatori delle Grandi Leghe del baseball americano.

La storia è questa. Fresco arrivato in quel di Miami nelle vesti di manager dei Marlins, dopo molte stagioni alla guida dei medesimi White Sox, Guillén è stato di recente intervistato “a cuore aperto” dal settimanale Time. E tra le molte cose che ha raccontato di sé stesso, della sua lunga carriera di sportivo e della sua vita, ha pronunciato una frase che, all’istante, ha fatto risuonare tutti i campanelli d’allarme nei templi dell’esilio cubano, là dove i sacerdoti della vecchia guardia custodiscono ed alimentano il sacro fuoco dell’odio verso Fidel . “Io amo Fidel Castro – ha detto Ozzie al suo intervistatore – lo rispetto e sa perché? Perché molta gente ha cercato di ammazzarlo negli ultimi 60  anni. Però quel figlio di…ancora è lí…”.

Per chiunque non abiti nella Miami-Dade County e, a Miami, non spenda la sua esistenza nella bolla ideologica dell’esilio, ben difficile è trovare in questa serie di parole qualcosa che possa risuonare offensivo (fatta eccezione, forse, per lo stesso Fidel e per la buon anima di sua madre). Ozzie, che in vita sua mai ha manifestato alcuna simpatia per la sinistra (e che, nell’intervista, ribadisce la sua totale avversione per “la filosofia del castrismo”) non ha fatto in fondo che questo: dare a Fidel, con il linguaggio d’un ruvido “uomo di sport”, quello che a Fidel concede ogni storico degno di questo nome. Perché, libertador o tiranno, Fidel ha davvero vittoriosamente fronteggiato, per oltre mezzo secolo, una grande potenza che prima di lui aveva – dalla cacciata della Spagna nel 1902 alla rivoluzione del ‘59 – mantenuto Cuba in uno stato semi-coloniale; e che sulla sua barbuta capoccia ha, per molti anni, posto una consistente e persistente taglia (vedi operazione mongoose).

Questo ovunque, ma non a Miami. Non nella bolla ideologica. Qui, quelle parole (le prime quattro soprattutto) sono risuonate, semplicemente, come una bestemmia. E, come ogni bestemmia, hanno reclamato la fatwa di un acto de repudio. Il quale acto ha a sua volta imposto al reo – esattamente come, a parti capovolte, accade all’Avana – l’umiliazione di un auto da fé. Messi di fronte alla prospettiva d’un boicottaggio (si tenga presente che la comunità cubana di Miami ha finanziariamente contribuito in modo determinante alla costruzione del nuovo stadio) i Marlins hanno comminato a Ozzie cinque giornate di sospensione (già dichiarate “insufficienti”). E lo stesso Ozzie ha dovuto, o meglio, ha scelto di sottoporsi all’umiliazione d’una lacrimosa autocritica che – inizialmente consumatasi in una sala del nuovo stadio, mentre all’esterno una folla di trecento anticastristi reclamava la sua testa – è probabilmente destinata a durare in eterno. Perché, a Miami, la mancanza d’odio verso Fidel (per non dir dell’amore) è un delitto che non conosce perdono. E che richiede una perenne espiazione. Magari accompagnata, come ai tempi del maccartismo (o come, a parti capovolte, all’Avana) dalla denuncia delle “quinte colonne” del “nemico” nelle fila del baseball…

Naturalmente, per tutti coloro rimirino gli eventi da luoghi che non siano Miami o l’Avana, il vero scandalo di questa vicenda sta nel fatto che, in un paese libero, un allenatore è stato punito per aver espresso un’opinione politica. Ma questa è, come si dice, tutta un’altra storia…

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