Funerali per le vittime della strage di Oslo

”Schizofrenico paranoico”? No grazie. Anders Behring Breivik, il fanatico di estrema destra che il 22 luglio scorso in Norvegia massacrò a sangue freddo 77 persone, uccidendone 69 una a una sull’isoletta di Utoya, preferisce il marchio di assassino calcolatore a quello di persona affetta da disturbi mentali: tutt’al più da fanatismo ideologico estremo, non da pazzia. E per un paradosso della legislazione norvegese, mantenere il punto sulla propria salute mentale potrebbe consentirgli di “cavarsela” con 21 anni di carcere, evitandogli la prospettiva del manicomio a vita.

Il 32enne Breivik, dicono i suoi legali, oggi ha respinto la perizia depositata in settimana dagli psichiatri, che parla apertamente di malattia mentale. “Lui ha reagito dicendo che (la perizia) contiene errori, menzogne e dichiarazioni estrapolate dal loro contesto”, racconta al giornale norvegese Verdens Gang uno dei suoi avvocati, Odd Ivar Groen. Secondo Breivik, il limite dei medici che lo hanno esaminato è di non capire nulla della sua ideologia. “Il mio cliente – dice ancora il legale – è preoccupato per il fatto che questi periti non hanno alcuna conoscenza di ideologie politiche. Pensa che abbiano qualificato come bizzarrie alcune sue dichiarazioni, che egli stima non essere affatto bizzarre”. Quindi Breivik “non condivide affatto il loro giudizio, secondo cui è malato di mente”, affetto cioè da “schizofrenia paranoica”.

Già all’indomani del verdetto degli psichiatri Synne Serheim e Torgeir Husby, l’avvocato Groen aveva descritto Breivik come “un po’ sorpreso ma pronto al peggio”, pur precisando che il suo assistito non aveva avuto accesso al testo integrale della perizia, lungo 243 pagine.

Breivik ha sorpreso i suoi stessi periti che hanno avuto modo di leggersi il suo “manifesto” politico e d’azione – che di pagine ne ha 1.518 – che espone le sue idee islamofobe, il suo odio per gli immigrati, per l’ideologia multiculturale e per la sinistra che l’ha fatta sua: 69 delle persone da lui “punite” erano infatti adolescenti della gioventù socialdemocratica che stavano svolgendo un raduno annuale sull’isoletta di Utoya.

Proprio questo è per Breivik un punto cruciale, e anche d’onore: anche se fatto in buona fede, e non con l’intento di sminuirla, il confondere un’ideologia estrema ma “razionale” con il prodotto della pazzia è agli occhi di un fanatico come lui segno dell’incapacità della società nella quale vive di comprenderla, imbevuta com’è, ai suoi occhi, dell’odiata ideologia progressista.

Ma si può liquidare come semplice pazzia un gesto di cui lo stesso autore ha diffuso tanta informazione su internet, che ha spiegato così dettagliatamente e meditato così a lungo? Oppure i medici hanno tenuto conto di altre circostanze della sua vita per spiegare la strage piuttosto che quanto da lui razionalmente esposto?

Oppure c’è una terza ipotesi: un dilemma che in quasi tutti gli altri Paesi del mondo avrebbe indotto l’imputato a preferire un marchio socialmente invalidante come quello di “malato di mente” alla prospettiva di una vita in carcere o alla morte sulla forca. Ma che nella progressista Norvegia potrebbe apparire rovesciato: accettare di essere giudicato “schizofrenico paranoico” significherebbe per Breivik finire in un manicomio criminale, potenzialmente per tutta la vita. Viceversa, mostrarsi in possesso di sè gli imporrebbe la prospettiva di una cella di prigione, ma per un massimo di 21 anni, dalla quale uscirebbe poco più che cinquantenne, se non prima. Questa è infatti la pena massima prevista dal codice penale norvegese.

Questo il bivio che l’assassino di Utoya si trova di fronte al processo contro di lui che si apre il 16 aprile 2012. E c’è da scommettere che per smentire i periti di Stato chiederà una controperizia prima di allora.

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