Siria, un’ultima chance. La visita del ministro degli esteri turco Ahmet Davutoğlu, ieri a Damasco, per un incontro-maratona con il presidente Bashar al-Assad– sei ore, le seconde tre di faccia a faccia dopo una prima discussione aperta alle delegazioni – ha avuto il chiaro valore di un disperato ultimatum, seppur amichevole e costruttivo: proprio alla vigilia della presentazione – oggi – del rapporto del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon al Consiglio di sicurezza. Il capo delle diplomazia di Ankara ha consegnato una lettera del presidente Abdullah Gül e trasmesso un messaggio del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. E ha ripetuto l’ennesimo invito a porre fine alla repressione violenta e sanguinaria delle proteste popolari, ad avviare con convinzione un processo riformista di cui – con l’abolizione dello stato di emergenza e la legalizzazione dei partiti politici – sono stati mossi solo i primi timidi e insufficienti passi.

Altrimenti, il regime è destinato a perdere l’appoggio della Turchia: che negli ultimi dieci giorni, dopo che le violenze dell’esercito non si sono fermate neanche per l’inizio del Ramadan, ha ulteriormente alzato i toni e ha fatto capire che è pronta a unirsi al fronte internazionale sanzionatorio. Molto diretto, ad esempio, il comunicato del ministero degli esteri pubblicato domenica 31 luglio, come reazione alla strage di Hama, sul sito web istituzionale: “Gli ultimi sviluppi fanno nascere dubbi sull’intenzione e la sincerità del governo siriano nel voler risolvere la situazione conflittuale in modo pacifico”. Parole che hanno assunto un tono velatamente minaccioso nell’elaborazione che ne ha fatto Davutoğlu, a Oslo, il lunedì successivo, quando ha spiegato che la Turchia non desidera un intervento armato internazionale, ma che “nessuno può restare in silenzio quando vengono uccise più di cento persone in un singolo giorno.”

“La nostra pazienza sta per finire”: questo l’avvertimento di Erdoğan ad Assad, sabato scorso annunciando la missione di Davutoğlu. E il premier ha aggiunto che l’atteggiamento della Turchia verso la Siria dipenderà dalle risposte – con le parole ma soprattutto con i fatti – alla visita del ministro degli Esteri. Di ritorno all’aeroporto della capitale, ieri in tarda serata, Davutoğlu non ha svelato l’esito dell’incontro col leader siriano. Ha dichiarato di aver presentato “ai fratelli siriani” il punto di vista turco “in modo franco e risoluto”, indicando come priorità “la fine del bagno di sangue” attraverso un percorso concreto che è stato dettagliatamente suggerito. Dalle sue parole si capisce comunque che la Turchia si ostina a credere in un’evoluzione positiva, che ha concesso ad Assad l’ennesima e disperata occasione: “abbiamo la speranza che i prossimi giorni e settimane si riveleranno decisivi nel riportare la pace e la stabilità nel paese e che verranno assicurate le riforme politiche richieste dai siriani.” Insomma, nessuna rottura traumatica per il momento: la Turchia ha scelto di aspettare ancora. Cosa avrà promesso Assad? Davutoğlu lo rivelerà nel prossimo consiglio dei ministri, sono attese indiscrezioni sulla stampa.

Il capo della diplomazia di Ankara ha tenuto anche a precisare che non ha fatto da messaggero a Hillary Clinton e che, nonostante la loro chiacchierata telefonica di domenica, ad Assad ha parlato a nome solo del proprio governo. Così smentendo il portavoce di Foggy Bottom, Mark Toner che aveva fatto invece intuire una convergenza sulle richieste americane di “maggiori pressioni sulla Siria”, con esplicito riferimento al “ritorno dei soldati nelle caserme” e al “rilascio dei prigionieri”.

La Turchia, quindi, non vuole essere ancora considerata come parte del “fronte occidentale”: ha creato con Damasco una promettente partnership politica ed economica, esita a gettare tutto a monte; ha suggerito sin dall’inizio della “primavera araba” sostanziali riforme democratiche, prefigurando il tetro scenario – caduta del regime, libanizzazione della Siria – che si sta materializzando; ha costantemente rigettato un intervento militare come in Libia, ma ha offerto ospitalità alle opposizioni siriane e non può escludere sanzioni internazionali in futuro. Nel frattempo, molti dei grandi progetti di cooperazione economica – commerciali e infrastrutturali – sono inesorabilmente sospesi. I media hanno più volte ipotizzato un intervento armato e limitato, solo turco, per creare una zona cuscinetto in Siria e dare rifugio ai civili, come avvenne nel 1991 per l’Iraq. Il portavoce del governo e vice-premier Bülent Arınç ha smentito categoricamente, ma se s’infiammasse anche Aleppo – città di 3 milioni di abitanti, a 40 chilometri dalla Turchia – e il flusso divenisse ingestibile, col pericolo di infiltrazioni di miliziani del Pkk basati in Siria, tutto potrebbe cambiare.

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