Cultura

“Nata nell’acqua sporca”, un naufragio volontario che obbliga a guardare in faccia dolore, solitudine, caos emotivo delle nuove generazioni

In libreria il romanzo d'esordio della giornalista Giuliana Vitali. La postfazione di Silvio Perrella: "E' scritto con il fil di ferro che raschia la pagina"

di F. Q.

L’assenza dei genitori, un amore tossico, l’amicizia con altri compagni di deriva, il naufragio tra passato e presente che conduce a un futuro possibile. Si intitola Nata nell’acqua sporca (230 pagg., 18 euro, Giulio Perrone Editore) il romanzo d’esordio di Giuliana Vitali, un romanzo “scritto con il fil di ferro che raschia la pagina”, scrive lo scrittore e critico letterario Silvio Perrella nella postfazione. La storia è quella di Sara, giovane napoletana, cresciuta nell’assenza di un padre emigrato in Albania e nella distanza emotiva di una madre troppo presa dal suo lavoro di giornalista, impara presto a convivere con il silenzio e l’incomprensione. Fuggire diventa l’unica scelta possibile: lascia la casa d’infanzia per seguire il fidanzato tossicodipendente, ritrovandosi in un vortice di eccessi e smarrimento. Il suo destino si intreccia con quello di altri tre compagni di deriva. La loro amicizia è il nodo viscerale di un amore tossico e in questo naufragio volontario, il corpo diventa una frontiera da esplorare, un territorio di perdizione e riscoperta. Ma il passato riaffiora, si insinua nel presente, lo plasma e lo deforma come un’eco: l’infanzia e l’adolescenza si specchiano l’una nell’altra, cicliche, inevitabili in un dialogo doloroso tra la bambina che era e la donna che sta diventando.

Giuliana Vitali (Napoli, 1987), vive a Roma. Condirettrice e curatrice della rivista letteraria Achab, collabora con diversi giornali e riviste culturali come Left, Huffpost, Wired, TPI, Il Quotidiano del Sud.

Di Nata nell’acqua sporca ilfattoquotidiano.it pubblica qui un’anticipazione

***

Sara camminava sulla lunga striscia di cemento del lungomare a Pozzuoli. Qualcuno giocava a pallacanestro su uno slargo, poco distante dalla ringhiera dove si eranosistemati i marocchini con i teli bianchi pieni di chincaglierie in vendita. Anna aveva detto che il negozio della Sisal era in una traversa vicino al porticciolo, alle spalle del rione Terra. Era ancora presto e decise di fermarsi in quella darsena. Si era seduta sulla banchina, di spalle ai vecchi palazzoni che si ripiegavano all’indietro, di fronte al mare calmo dell’insenatura. Le finestre nere incorniciate dal muschio si riflettevano sulle increspature leggere dell’acqua colorata di un azzurro artificiale; era il letto dove i pescherecci si posavano respirando piano dopo la fatica della notte. La ragazza aveva acceso una sigaretta, fissava la piccola chiesa bianca dei marinai. La croce in alto bucava il grigiore dell’aria, qualche goccia di pioggia cominciò a caderle sui jeans. Si alzò per andare a ripararsi sotto la copertura di legno all’ingresso della baracca che era dietro di lei. In mezzo c’era una barca blu abbandonata; sulla finestrella chiusa c’erano l’immagine della Madonna Assunta, quella del Papa e una fotografia di Vincenzo, campione storico della festa del Pennone.

Sara teneva la mano di Elena, tra la folla tumultuosa di persone a torso nudo. I pescatori si preparavano alla gara sotto il sole rovente che scuriva le schiene bianche di sale e che batteva sugli occhi arricciati dei partecipanti. L’albero preso da una barca protendeva sul mare; era stato attaccato alla banchina con due ganci di ferro, incastonati nell’asfalto. Tre bandierine rosse erano posizionate all’estremità del lungo pennone, infilate in una fessura tagliata nel legno. Una decina di ragazzi erano saliti su un peschereccio e avevano cominciato a strofinare il palo con il grasso raccolto dai secchi, a mani nude.

«Mamma, adesso che fanno?» aveva chiesto mettendosi la mano sulla fronte per ripararsi dal sole.

«La vedi quella bandierina alla punta? Devono camminare sul palo e riuscire a prenderla» rispose indicando con il dito.

I gommoni e le barche zeppe di gente in costume da bagno cominciavano ad arrivare. Circondavano il pezzo di mare sotto il palo, l’odore di naftalina si mischiava a quello di pizza fritta e arachidi caramellati. L’uomo al megafono inaugurò l’inizio della gara. Alcuni pescatori erano divisi in gruppi, si scambiavano opinioni sulla tecnica migliore da seguire per non finire in acqua; altri se ne stavano in disparte facendosi ripetuti segni della croce.

«Guarda, per me s’adda fuie là ’ncopp, nun a’ jì chjà nu» faceva un ragazzo.

«No, no. Poi ’a mazza s’abbia a movere, scivoli e t’abbucc» rispose l’amico.

«Comunque guagliò, è questione ’e fortuna» si intromise l’uomo più anziano.

Il primo a tentare la presa era un certo Gennaro. Un pescatore con un costume a mutanda che gli arrivava fin sopra l’ombelico. La bambina riusciva a vedere solo le spalle quadrate e nere. Camminava con le braccia aperte, muovendo l’anca con lentezza.

«Gennarì, vai, Gennarì!» gridavano dal pubblico. Era quasi arrivato all’estremità ma appena si abbassò per prendere la bandiera perse l’equilibrio e cadde in acqua, tra il rammarico degli spettatori.

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