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Decreto sicurezza, il Csm: “I nuovi reati peseranno sul sistema. Finora il governo ha depenalizzato solo l’abuso d’ufficio”

Il parere sul provvedimento licenziato dalla Sesta Commissione: "Si attribuisce rilevanza penale a condotte riconducibili all’attività di manifestazione del dissenso"
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“L’impatto complessivo che le nuove disposizioni potranno avere sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici non è del tutto prevedibile. È però evidente che il sistema giudiziario non potrà non risentirne“. Lo si legge nella proposta di parere approvata dalla Sesta Commissione del Consiglio superiore della magistratura – presieduta da Roberto D’Auria, togato del gruppo “moderato” di Unità per la Costituzione – sul decreto Sicurezza, varato a inizio aprile dal Consiglio dei ministri e ora in fase di conversione alla Camera. Il provvedimento del governo introduce 14 nuovi reati, nove aggravanti e innumerevoli aumenti di pena: una scelta, sottolinea la Commissione, che non potrà certo aiutare a velocizzare i tempi della giustizia penale. È “acclarato”, infatti – scrivono i consiglieri – che “a favorire una migliore efficacia dell’organizzazione” non sia la moltiplicazione dei reati, ma piuttosto “interventi ispirati alla logica, opposta, della depenalizzazione“: una logica, però, finora seguita dalla maggioranza “unicamente con riferimento ad alcune ipotesi di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, cioè “essenzialmente l’abuso d’ufficio“, cancellato dalla legge Nordio entrata in vigore lo scorso agosto. Per il resto, invece, il ministro della Giustizia – pur avendo promesso depenalizzazioni a inizio mandato – finora non ha fatto altro che inventare nuove fattispecie penali, a partire dall’ormai leggendario “reato di rave” infilato nel primo decreto legge del governo.

La proposta della Sesta Commissione sarà votata dal plenum (l’organo al completo) nella seduta di mercoledì: oltre al presidente D’Auria, a firmarla sono i consiglieri Roberto Romboli, Antonello Cosentino, Roberto Fontana ed Eligio Paolini, mentre si è astenuto Felice Giuffrè, laico in quota Fratelli d’Italia. Rispettando il ruolo del Csm, il parere omette “ogni considerazione relativa” alla dubbia necessità e urgenza del provvedimento, che ha assorbito con un blitz il testo del contestatissimo ddl Sicurezza, in discussione in Parlamento da oltre un anno. Ma sottolinea “come da più parti – tanto in ambito accademico quanto in ambito forense – siano stati espressi argomentati dubbi sulla conformità di alcune delle scelte incriminatrici rispetto ai principi costituzionali in materia penale”. In particolare, il decreto attribuisce “rilevanza penale a condotte che non solo vengono solitamente realizzate con atti di resistenza passiva, ma sono anche tipicamente riconducibili all’attività di pubblica manifestazione del dissenso“: il riferimento è in particolare al nuovo reato di blocco stradale, che punisce con il carcere fino a due anni chi “impedisce la libera circolazione su strada ostruendo la stessa con il proprio corpo“. Una condotta, ricorda il parere, depenalizzata nel 1999 e ancora prima “oggetto di reiterati provvedimenti di amnistia e indulto” proprio per la sua rilevanza costituzionale.

Due aggravanti previste dal decreto, poi, “stigmatizzano in modo più accentuato” comportamenti già vietati “ove gli stessi siano sorretti da finalità di manifestazione del dissenso”: la cosiddetta norma “anti-no Ponte“, che aggrava la resistenza a pubblico ufficiale se commessa “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture“, e quella contro gli attivisti climatici, che punisce più severamente il deturpamento e imbrattamento attuati “con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro” delle istituzioni. Giudizio critico anche sul nuovo reato di rivolta in carcere, che punisce anche le condotte di resistenza passiva: “Si tratterebbe di una novità pressoché assoluta per il nostro ordinamento, sin qui solidamente ancorato al principio della irrilevanza penale delle condotte di mera inazione rispetto all’ordine impartito dall’autorità”, si legge. Inoltre, “l’equiparazione tra le condotte di mera resistenza passiva e quelle caratterizzate da violenza e minaccia potrebbe prestarsi a rilievi di irragionevolezza e avere effetti contrari a quelli presumibilmente attesi, finendo paradossalmente per incentivare il ricorso a forme di contestazione o disobbedienza dotate di maggiore pericolosità e carica offensiva”.

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