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Solo la fermezza può salvare in extremis l’Europa dall’aggressione concertata del duo Putin-Trump

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La valanga che in un solo giorno si è riversata sull’Europa è stata di enorme potenza, ma non imprevedibile in quanto annunciata nella virulenza scomposta della campagna elettorale di Trump e nello sguaiato, roboante discorso dell’insediamento.

La conferenza di Monaco è stata usata dal vice di Trump, lodato dal capo per la brillantezza dell’intervento, come una ribalta mondiale per squadernare il nuovo ordine previsto dalla “golden age” trumpiana: nel mondo alla rovescia imposto con la forza, e contro i più elementari fondamenti del diritto, la minaccia peggiore per la stabilità dell’Occidente e dunque degli Usa viene dall’Europa. Trump l’aveva già enunciato chiaramente: “non bisogna guardarsi tanto dai nemici quanto dagli alleati”. Soprattutto se ai “nemici” come Putin si è da sempre legati da un patto sotterraneo di mutuo soccorso per negare e coprire le rispettive manipolazioni e infamità nella piena condivisione del metodo gangsteristico come bussola della politica interna ed estera.

Vance alla 61esima Conferenza per la sicurezza di Monaco non si è “limitato” ad umiliare l’Europa ma, forte del mandato ricevuto a Washington “dal nuovo sceriffo in città”, ha preteso di impartire dal pulpito degli assalitori di Capitol Hill una lectio magistralis all’Europa che si “sta allontanando dai valori comuni” in quanto reprime la libertà di parola, indulge al fact checking, denuncia la disinformazione e combatte le manipolazioni, che “non esistono o sono falsi problemi”.

Al contrario il nuovo sceriffo, autoproclamatosi “pacificatore delle genti” e stupor mundi, dopo l’amministrazione fallimentare dell’usurpatore Biden, si è fatto generosamente carico di promuovere e offrire “uno spazio di confronto” all’Occidente in cui tutte le voci possano confrontarsi. E tutta questa generosa disponibilità e strenua difesa della libertà di espressione, un valore supremo, si dispiega mentre la Casa Bianca si libera di tutti i funzionari pubblici che hanno osato remare contro Trump e addirittura incriminarlo per reati gravi contro la pubblica amministrazione, nonché dei giornalisti della stampa estera non allineati con il nuovo corso.

Sempre nell’arco delle 24 ore che verranno ricordate come lo spartiacque tra il tempo dei rapporti “privilegiati” e quello dell’umiliazione, il vice sceriffo di Washington, dopo aver scudisciato i leader europei, sulla scia di Elon Musk ha incontrato con esibita cordialità la leader dell’Afd Alice Weidel: più un endorsement che un’apertura di dialogo. E così come in un puzzle tutte le tessere sembrano andare perfettamente al loro posto, visto che la leader dell’estrema destra coniuga armoniosamente il coté neonazista con la dichiarata simpatia e stima per Putin condivisa dai pacificatori della golden age.

Ma per apprezzare pienamente il desiderio di apertura al dialogo e all’inclusione di chi pretende, non si sa investito da chi o per quali meriti se non il bullismo delinquenziale condiviso con l’aggressore, di realizzare “una pace durevole” in Ucraina basterebbe solo guardare oggettivamente come si sta avviando il presunto negoziato. Per ora con tutta la buona volontà di credere, anche per sedare l’ansia e il disgusto, a chi assicura che “tutte le opzioni sono sul tavolo”, che l’amministrazione Trump sarebbe pronta “a sanzioni durissime” e “a inviare truppe sul terreno” se Putin “non starà ai patti” e/o non negozierà “in buona fede”, si è assistito al contrario.

Trump ha riservato a Putin un trattamento super privilegiato, l’ha eletto interlocutore unico e in grado di determinare condizioni-diktat che sono quelle di sempre: tutte le province anche quelle non interamente occupate dai russi; no all’ingresso nella Nato né ora né mai; pressione su Zelensky “illegittimo” per andare al voto sotto gli attacchi quotidiani anche alle centrali nucleari oltre che a quelle elettriche. A queste imposizioni l’amministrazione Trump ha aggiunto la contropartita esosa della cessione delle terre rare per gli aiuti ricevuti che Zelensky non ha firmato; l’esclusione a tutt’oggi dal tavolo negoziale a cominciare dagli incontri in Arabia Saudita; il disimpegno Usa dalla difesa del confine est di oltre 1000 km e l’assoluta mancanza di garanzie per la difesa aerea.

Per chi è sfornito delle informazioni riservate ai “retroscenisti”, non simpatizza per Putin, ha un minimo senso di giustizia, non liquida come obsoleti e fastidiosi i principi elementari dello stato di diritto internazionale e ritiene le considerazioni di Mattarella pure “parole di verità” che onorano l’Italia, si sta solo assistendo a qualcosa di vergognoso e di rovinoso. Trump è arrivato a dire “non si sa se forse l’Ucraina un giorno sarà russa”, tratta Zelensky e l’Europa come questuanti da tenere fuori dalla porta e il motivo per cui non trapelano informazioni sul suo piano di pace potrebbe essere molto semplice: non c’è, l’ha già scritto da tempo Putin.

Per “essere rilevanti” davanti al duo di despoti che al di là delle affinità delinquenziali ha creato una convergenza inedita e pericolosissima che va oltre la definizione dei confini e del futuro dell’Ucraina, ma investe la tenuta del sistema democratico, bisogna opporre unità, forza e fermezza. L’Europa se ne sta rendendo conto con colpevole ritardo. Forse ha capito che deve provvedere alla difesa comune, darsi una governance che non la paralizzi, introdurre il voto a maggioranza per neutralizzare le quinte colonne putiniane. L’incontro straordinario a Parigi per “rispondere” all’esclusione dai negoziati e ribadire che Kiev non è nella disponibilità dei due sopraffattori è un primo passo.

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