Cinema

Il baule dei ricordi di Placido e Muti, al Torino Film Festival i cinquant’anni da Romanzo Popolare di Mario Monicelli

di Davide Turrini

“Michele, non mi hai mai chiamato in un tuo film: vediamo che puoi fare”. Per Ornella Muti i cinquant’anni da Romanzo Popolare non sembrano essere mai passati. Michele Placido, che con lei e Ugo Tognazzi componeva il terzetto diretto da Mario Monicelli nel film del 1974, la osserva sornione e un po’ di sbieco, ancora irruento e ruvido, sangue caldo mediterraneo.

Oggi come allora eccoli gli operai “terroni” di Lambrate, protagonisti di uno dei capolavori della storia del cinema italiano, in queste ore celebrato al 42esimo Torino Film Festival. Nel terzetto l’allora 52enne Tognazzi era il metalmeccanico sindacalizzato autoctono e milanista. Mentre Muti e Placido erano i meridionali emigrati: lei è Vincenzina una diciannovenne presto giovane mamma (poi operaia) e l’altro un poliziotto ventottenne che si innamora di lei e la soffia al marito Tognazzi. Romanzo popolare è una storia di corna e di emancipazione femminile, un film struggente e dignitoso, divertente ed estremamente popolare. Tanto che racimolò oltre un miliardo e mezzo di lire in sala e finì nella top five della stagione 1974-75 dominata da Fantozzi, L’esorcista e Porgi l’altra guancia del duo Spencer-Hill.

“Monicelli è stato definito da Billy Wilder il regista dai migliori tempi comici della storia”, ricorda Placido. “Girava commedie ma di profonda ispirazione sociale. In quel film ci sono i risultati delle lotte operaie post ’68, la restituzione di un retroterra politico culturale, la Lambrate dei terroni settentrionali. E poi c’è un tocco speciale. Quello di Enzo Jannacci e soprattutto di Beppe Viola. Infatti dopo la versione iniziale della sceneggiatura scritta da Age & Scarpelli, Mario mi chiamò e passammo una mattina in quel quartiere di Milano dove vivevano tanti amici miei che erano emigrati lì da tempo. Con noi c’era Viola che apportò una visione specifica della Milano dell’epoca. Lui conosceva i tifosi foggiani, baresi, palermitani con la maglia dell’Inter o del Milan. Insomma, il popolo che viveva e respirava lì ogni giorno”.

“Sono molto orgogliosa di aver girato quel film”, ha ricordato la Muti. “Vincenzina del resto è l’evoluzione e l’emancipazione della donna: da ruolo socialmente precostituito con le sopracciglia folte a quella di una donna che grazie ad uno stipendio della fabbrica vive la su vita”. Muti ha poi aggiunto di aver girato parecchi film “pro donne”, tra cui Un’altra donna di Ferreri “film faticosissimo, con l’amputazione del pene di Depardieu, comunque un vero inizio di quello che fu un parlare delle donne e di come venivano trattate”.

Insomma Muti e Placido colonne non solo di cinema, ma di cinema che anticipa i tempi e i temi dell’oggi. “Nel 1979 vinsi l’Orso d’argento al festival di Berlino per aver interpretato un omosessuale in Ernesto di Samperi tratto da Umberto Saba. All’epoca non avevo un ufficio stampa grazie a Dio e scoprii di aver vinto dal mio giornalaio. Che fai qua? mi disse dall’oblò dell’edicola. Hai vinto l’orso d’argento! Il presidente di giuria era Fassbinder che poi mi volle in un altro film, ma ero occupato su un set con Rosi, e poco prima di morire voleva me e Ornella in un altro film ancora intitolato Cocaina”.

Il baule dei ricordi, insomma, si riapre per una mezz’ora. Con il direttore del TFF, Giulio Base, seduto in mezzo ai giornalisti per ascoltare le sue amate celebrità che potrebbero intrattenere il pubblico chissà per quanto. Anche se la chiude definitivamente la Muti, proprio nel parlare di immagine e fascino: “Per quanto uno sia un uomo bellissimo, l’uomo è meno penalizzato nel lavoro, perché è accettato meglio. Certo, quella che viene considerata bellezza, ed io da eterna insicura non sono mai riuscita ad appropriarmi dell’immagine che gli altri hanno di me, per una donna è penalizzante. Hai come una scadenza lavorativa, insomma. Devi lavorare molto di più rispetto ad un uomo”.

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