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Capetti e cronometro: la lezione delle Olimpiadi sulla meritocrazia

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Guardando le Olimpiadi, è facile rimanere affascinati non solo dalle incredibili prestazioni degli atleti, ma anche dalle dinamiche di fondo che governano lo sport di alto livello. Una di queste dinamiche, forse la più pura e trasparente, è la meritocrazia misurata dal cronometro. Il concetto di imparzialità di questo strumento può essere illuminante, specialmente quando si confronta con le dinamiche aziendali dove favoritismi e influenze sono all’ordine del giorno. Le aziende spesso si rifanno a metafore sportive, esagerando le somiglianze per enfatizzare la competizione, il gioco di squadra e la perseveranza. Tuttavia, a differenza dello sport, dove le regole sono chiare e le competizioni relativamente trasparenti, il mondo aziendale è pieno di complessità e ambiguità.

Nel mondo dello sport, il cronometro è il giudice supremo. Non importa quanto tu possa essere popolare, simpatico o influente; alla fine, ciò che conta sono i numeri. Un tempo di 9,80 secondi nei 100 metri piani è inconfutabile e non aperto a interpretazioni. Questo dato oggettivo determina chi è il più veloce e quindi il vincitore. Nello sport, la meritocrazia si basa su dati tangibili, chiari e incontrovertibili. Al contrario, nelle aziende e nelle organizzazioni, la meritocrazia spesso viene offuscata dai “capetti” – quei leader o manager che, gonfi di ego, preferiscono valutare le persone sulla base di criteri soggettivi. Questi capetti spesso rifiutano di applicare una valutazione basata su dati oggettivi, scegliendo invece di farsi influenzare da simpatie personali, raccomandazioni e, in molti casi, dalla capacità di un dipendente di blandirli e prostrarsi ai loro piedi.

Il cronometro, però, non ha preferenze. Non si può manipolare né corrompere. Non importa chi sei o da dove vieni; i suoi numeri riflettono solo la realtà. Una vita di preparazione e quattro anni di allenamento possono ridursi a una questione di millesimi di secondo. Pensiamo a Noah Lyles, che era settimo a metà gara ma ha poi concluso vincendo, o a Marcel Jacobs, che ha realizzato una delle migliori prestazioni europee di tutti i tempi. Questi atleti sono giudicati solo ed esclusivamente per ciò che riescono a fare in quei pochi secondi di gara.

Consideriamo il valore di cinque centesimi secondi: 0,05 secondi. Questa frazione infinitesimale di tempo può significare la differenza tra il podio e lo spogliatoio, tra la gloria e l’oblio. È affascinante e, allo stesso tempo, crudelmente giusto. Non ci sono favoritismi; è solo una questione di chi riesce a spingere più forte e più velocemente fino al traguardo. In azienda, una differenza così sottile potrebbe passare inosservata o essere ignorata, ma nello sport è tutto ciò che conta.

Noah Lyles e Marcel Jacobs sono esempi perfetti di come il cronometro possa trasformare vite e carriere. Lyles, inizialmente settimo, ha dimostrato che la gara non è finita finché non è finita. La sua rimonta è stata una prova tangibile della sua preparazione, resistenza e capacità di performare sotto pressione. Jacobs, con la sua quarta miglior prestazione europea di tutti i tempi, ha cementato il suo posto nella storia dell’atletica. Eppure, nonostante le loro conquiste, ci sono ancora persone che, dal comodo del loro divano, con il telecomando in mano, giudicano e minimizzano questi successi. Saranno sicuramente dei capetti.

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