Libri e Arte

Le mafie dell’Est, i traffici di rifiuti tossici e il mercato delle escort: nel romanzo “Morire a Barentsburg” di Bonacini la fotografia di una realtà ancora ignorata

di F. Q.

“Morire a Barentsburg” è l’ultimo romanzo del giornalista Paolo Bonacini, uscito per “Giovane Holden Edizioni”. Al centro della storia, una spedizione per turisti facoltosi messa alla prova dalle dure leggi dell’esplorazione oltre il limite del circolo polare artico. Siamo alle Svalbard, dove una guida russa di nome Ghaliya si fa largo nella testa e nel cuore di un ricco commerciante originario della Sardegna. Giù al Sud, nella caldera estiva della Pianura Padana, dal fiume Po affiora il cadavere di un uomo che incuriosisce un improvvisato gruppo investigativo denominato Squadra Diamante in Carne e Ossa, a suo modo emulo di un popolare fumetto della Polizia. Due storie lontane e diverse. Sui ghiacciai dello Spitzbergen la spedizione avanza sperando o temendo di incontrare la più feroce bestia vivente che calpesti la terra: l’orso bianco. Giù nell’Emilia la squadra dei cinque investigatori tenta di risolvere enigmi matematici per dare un nome a quel cadavere, che temono sia solo il primo di una lunga serie. Quando le tessere vanno al loro posto, dietro entrambe le vicende emerge l’ombra unitaria e opprimente delle mafie dell’Est che operano a ogni latitudine. La vacanza alle Svalbard si trasforma in un incubo, Ghaliya scompare e ne viene annunciata la morte, tra Parma e Reggio Emilia emerge un’organizzazione in grado di gestire traffici navali illeciti tra i porti di mezza Europa e una disumana tratta di donne verso i ricchi Paesi occidentali. I protagonisti delle due storie dovranno arrivare a conoscersi e a incontrarsi, per dare un senso all’accaduto e trovare le ragioni delle rispettive azioni. Sapendo che il mostro è troppo grande e potente per essere sconfitto. Quello che segue è un estratto tratto da “Morire a Barentsburg”.

L’incontro con l’orso bianco
“…Il gruppo infonde coraggio e una sensazione di sicurezza, ma c’è il tempo appena per scattare qualche foto prima che gli edredoni scuotano le ali alzandosi in volo. Il silenzio nella baia, senza i loro aa uuu, si fa opprimente e dura meno di un minuto. Perché la fuga ha una ragione, annunciata dal ruglio prolungato e angosciante che schiaffeggia l’aria e fa vibrare le tende. Mamma orsa è arrivata. La vedono spuntare dietro una guglia glowing di ghiaccio azzurro penetrata dai raggi orizzontali del sole; la vedono avanzare con una espressione glowering sul volto che non promette nulla di buono. Ma la cosa impressionante del suo incedere all’ambio verso le tende è il movimento alternato delle spalle anteriori, ogni volta che le enormi zampe affondano senza alcun rumore nella superficie innevata. Quella bestia è un ammasso bestiale di muscoli per oltre duecento chili di peso e in pochi minuti potrebbe ridurre il campo a un ammasso di resti umani e stracci mescolati assieme.

Selina è la prima a riprendersi dallo shock: lancia un lamento strozzato e si rintana nella tenda. Janis e Amélie al contrario si girano verso Manus e muovono i primi passi di quella che diventerebbe una fuga precipitosa se Francesco non tuonasse con tutta l’aria dei suoi polmoni: “Fermi!! Fermi per Dio! Restate immobili e non giratele le spalle. Nessuno si muova! Parlate, dovete parlare, ma senza muovervi. Se tentiamo di scappare siamo morti! Morti!!!” L’ha quasi urlata l’ultima parola, in italiano come le altre, d’istinto, senza chiedersi se l’urlo scatenerà la belva e se gli svizzeri capiranno ciò che dice. Continua a guardare fisso in direzione di mamma orsa che ora rallenta la propria andatura e poi si ferma, ormai a pochi metri dalle pulke e dal suo piccolo che gioca con la mercanzia degli esploratori. Si ferma e si alza sulle enormi zampe posteriori, per segnare la supremazia della specie con i suoi due metri e mezzo abbondanti di statura. Poi un nuovo ruglio rivolto agli umani… macché ruglio! Quello è un terribile ruggito che neppure cento leoni assieme saprebbero…”

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